L'ironia della ‘Twitter Revolution’ iraniana

La rivoluzione verde dell'Iran

Si è molto parlato dell’uso dei social media nelle elezioni presidenziali in Iran del 2009 [in].

Ora, i sostenitori di Mir-Hossein Mousavi [it] stanno contestando la vittoria schiacciante di Mahmoud Ahmadinejad [it] nelle elezioni (Hamid Tehrani per Global Voices [it]).

Molti osservatori hanno definito le proteste associandole a ‘Facebook/ Twitter', sostenendo che questi social media abbiano avuto un ruolo fondamentale nell'organizzazione delle manifestazioni (Clay Shirky sul blog di TED [in], Lev Glossman su Time [in], Mark Ambinder per The Atlantic [in]). Il feed di Twitter #IranElection [in] è stato iperattivo durante tutta questa settimana (Ben Parr su Mashable [in]).

I siti di social networking come Twitter, Facebook e Delicious sono stati usati anche per organizzare attacchi DDOS [it] ai danni di siti filo-governativi e pro-Ahmadinejad, ivi compreso Ahmadinejad.ir [in] (Noah Shachtman su Wired [in]). Sembra che anche alcuni blogger americani stiano adottando la strategia degli attacchi DDOS (Nancy Scola su TechPresident [in]) e che un'agenzia politica di Washington vi abbia svolto un ruolo attivo, in un fuorviante (nonché illegale) tentativo di attivismo online (Evgeny Morozov su Foreign Policy [in]).

Alcuni sostenitori di Ahmadinejad stanno anche usando blog e Twitter esponendo le ragioni per cui ne ritengono legittima la vittoria (Hamid Tehrani per Global Voices [in]).

Nel tentativo di reprimere le proteste, il governo iraniano ha bloccato numerosi siti di social networking come Twitter [in], Facebook [in], YouTube [in] e parecchie testate online internazionali (Richard Sambrook sulla BBC [in] e il lancio della Associated Press [in]).

Dall'altra parte del mondo, secondo alcune fonti il Dipartimento di Stato americano ha “chiesto a Twitter di posticipare la chiusura del servizio per la manutenzione periodica in un momento così critico” (Elise Labott per CNN [in], Nancy Scola su TechPresident [in]).

Twitter viene usato parecchio nell'Iran post-elezioni: per organizzare proteste, condividere documenti, richiamare l'attenzione internazionale sulle proteste e influenzare l'agenda delle grandi testate d'informazione internazionali.

Quando il polverone della crisi post-elettorale iraniana sarà passato, vedremo che Twitter sarà stato più utile come mezzo di comunicazione che non per l'organizzazione interna. Vedremo che di fatto Twitter non ha cambiato granché in Iran rispetto alle proteste, ma ha svolto un ruolo decisivo per coinvolgere la comunità internazionale nelle proteste e attirare l'attenzione dei media sulle manifestazioni (da leggere Evgeny Morozov su Foreign Policy [in], Daniel Terdiman su CNet [in] e Marshall Kirkpatrick su ReadWriteWeb [in] riguardo #CNNFail [in]).

In realtà, sono meno di 10.000 gli utenti di Twitter in Iran (Sysomos [in] tramite BusinessWeek [in]) e meno di 100 tra loro sembrano essere attivi. Viste le cifre, è decisamente sorprendente che i loro messaggi abbiano generato un tale effetto moltiplicatore solo tramite il ‘ritweet’ (Il numero di utenti di Twitter in Iran potrebbe essere artificiosamente alto a causa di una campagna che chiedeva agli utenti di cambiare la propria località di Twitter a Teheran così da rendere difficile al governo iraniano colpire i dissidenti.)

Tuttavia è molto probabile che l'organizzazione concreta in Iran venga portata avanti via telefoni cellulari e reti di contatti offline, quegli stessi usati in precedenza per mobilitare i sostenitori di Mousavi a uscire e votare per lui.

Definire le proteste iraniane una ‘Twitter Revolution' non solo è fuorviante ma anche pericoloso, poiché riduce un legittimo movimento popolare di ampia portata a ciò che, dopo gli eventi in Moldova, va rapidamente divenendo un cliché.

Mary Joyce su DigiActive.org [in] usa il mio stesso approccio delle 4C [in] ai social media per valutare la campagna: “questa campagna ha prodotto Creazione di Contenuti e Azioni Collettive, ma sarà in grado di creare una Community di iniziative a lungo termine una volta che elezioni iraniane saranno scomparse dai titoli dei giornali?”

Evgeny Morozov [in] condivide il mio scetticismo sulle “affermazioni secondo cui Twitter sia servito ad organizzare le proteste” ritiene che per lo più abbia giocato un ruolo “nel pubblicizzare la violenza oppure le dimostrazioni pianificate in precedenza.”

Nancy Scola su TechPresident [in] concorda sul fatto che, “così come abbiamo visto in Moldova, l'idea di una “Twitter Revolution” non sempre viene supportata dai fatti, almeno nel senso in cui la sommossa non avrebbe avuto luogo senza questo strumento.”

Brand Stone e Noam Cohen per il NYT [in] concorda sul fatto che “etichettare questo dimostrazioni anti-governative apparentemente spontanee come una “Twitter Revolution” sia già diventato un luogo comune.

Kara Swisher su AllThingsD [in] è disgustata dall'enfasi dei media su Twitter “perché il punto è il modo in cui gli strumenti vengano usati dalle persone, più che degli strumenti in sé, lì dovrebbe ricadere l'attenzione.”

Ethan Zuckerman [in] è sorpreso dalla “misura in cui i giornalisti di alcuni eccellenti quotidiani si stiano facendo tutti le stesse domande.”

Marc Ambinder su The Atlantic [in] ricorda alla comunità di esperti come la maggior parte dei messaggi su Twitter siano rumore piuttosto che intelligence.

Tom Watson su TechPresident [in] ci ricorda che ci sono dei limiti a ciò che la tecnologia può fare, “specialmente quando uomini e donne stanno marciando per le strade controllate da truppe di una dittatura assolutista e religiosa, affrontando le armi dei militari in pubblico e il cappio dietro le mura di una prigione.”

Pubblicato anche su Gauravonomics [in] il mio blog sui social media e il cambiamento sociale.

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