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Russia: i racconti fotografici di un paziente psico-neurologico

Categorie: Europa centrale & orientale, Russia, Arte & Cultura, Cyber-attivismo, Fotografia, Interventi umanitari, Istruzione, Salute, Viaggi e turismo, RuNet Echo

In un internat [1], istituto psico-neurologico, che si trova tra Krasnoyarsk e Irkutsk, in Siberia, vive da sempre Pasha Kyshtymov, un paziente che non può comunicare attraverso l'uso della parola, ma che non ha avuto problemi ad imparare ad esprimersi attraverso la fotografia.

Il fotografo russo Oleg Klimov [2] [en], che quest'estate, con alcuni colleghi, ha visitato l’internat e vi ha anche scattato alcune foto [3] [ru, come tutti i link tranne ove diversamente indicato], ha documentato sul suo blog [4] l'esperienza, estemporanea e commovente, di insegnare a Pasha come condividere la sua visione del mondo con le altre persone:

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Credo sia naturale, per una persona che non può parlare, il fatto di andare alla ricerca di altre vie di comunicazione, per esempio a livello visivo, tramite le immagini… Nell’internat psico-neurologico siberiano non ho potuto fare a meno di notare il modo straordinario con cui un paziente riusciva a catturare le caratteristiche più distintive delle altre persone, e le mostrava poi usando le mani e le espressioni facciali, riuscendo così a spiegare ciò che voleva, ma non poteva, dire. Così ho capito che “fare movimenti circolari col pollice” serviva a indicare il direttore dell’internat, il quale, mentre parla con qualcuno o nei momenti di nervosismo, è solito fare quel movimento…

Il nome di questa persona così perspicace è Pasha; ha circa 30 anni e la sua storia clinica ci dice che, fin dalla nascita, quando la sua testa è stata tirata con un forcipe, convive con una lesione al cervello che gli ha fatto rimediare una compressione del “nervo del linguaggio”… Questo significa che Pasha è in grado di dire soltanto “Daaa” [si] e “Nyeee” [no], mentre tutti gli altri suoni da lui pronunciati sono di difficile comprensione; molto spesso Pasha è l'unico a capire sé stesso e le proprie sensazioni. Non può scrivere e neanche leggere; può solo osservare le cose, e sulla base delle sue esperienze, trarre autonomamente alcune conclusioni sul mondo intorno a lui, che nessuno gli ha mai insegnato a conoscere. “Una mente incontaminata a cui insegnare la fotografia!”, ho pensato.

La mia idea era quella di insegnare a Pasha, in modo rapido ed efficace, le basi della fotografia; ero sicuro del fatto che, attraverso questo mezzo d'espressione, il suo linguaggio sarebbe diventato più “comunicativo” e, per quanto mi riguardava, piu comprensibile. “Vuoi parlarmi di un fiore?”, gli chiedo, “fotografa un fiore e mostramelo…Anche attraverso la fotografia si possono dire delle cose…” […]

[…] L'intento di Pasha, nell'utilizzare la macchina fotografica, non era quello di diventare famoso o ricco, non c'era in lui l'ambizione altezzosa dell'artista, o una fede sconfinata nel proprio talento; Pasha voleva solo esprimere sé stesso, e poter comunicare con le persone intorno a lui. Quest'uomo aveva così tante cose da dire, che il solo fatto di tenere tra le mani la macchina fotografica lo rendeva felice. Mi veniva da ridere mentre vedevo Pasha fare delle foto che erano identiche a quelle che farebbe un brillante studente della scuola di fotografia o, peggio ancora, a quelle degli “artisti affermati della macchina fotografica”. […]

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In breve tempo Pasha è divenuto a tutti gli effetti un membro della nostra “spedizione sperimentale”; camminavamo insieme, e insieme scattavamo foto; prendevamo il tè nella nostra baracca fuori dall’internat, bevendo il latte prodotto al villaggio e mangiando formaggio, e anche del cioccolato buonissimo. Gli ho comprato un cappello che era “quasi identico a quello del fotografo russo Syomin”, e gli ho insegnato ad annodarsi la cravatta, che lui ha preferito indossare alla maniera di alcuni fotografi del “gruppo del Cremlino”, In altre parole, lo abbiamo accettato come uno di noi, e la sua compagnia ci rendeva felici.

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Quando siamo andati a cena presso l’internat, però, abbiamo scoperto che a Pasha non era permesso di stare nella sala da pranzo insieme a noi, così come noi non potevamo stare con i pazienti; dovevamo rimanere separati. Senza che io gli spiegassi niente, Pasha mi ha restituito la macchina fotografica; voleva ridarmi anche il cappello, ma gli ho detto che quello era un regalo per lui. Il nostro amico ci ha aspettato nella strada accanto, mentre noi finivamo di consumare il nostro pasto nella sala da pranzo della struttura, per poi raggiungerlo fuori e andare a scattare altre foto…

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Come ci ha detto il direttore dell’internat, una persona meravigliosa dotata di mentalità aperta e di sani principi, questo “sistema” è mostruoso nella sua imperfezione; un bambino che vi entra subito dopo la nascita ha possibilità quasi nulle di uscirne, a prescindere dal fatto di avere o meno devianze psichiche, e al di là della sua capacità di vivere nella società nonostante tali eventuali devianze. E’ in questo senso che il sistema “vieta severamente l'ingresso agli estranei”, […] […] ma proibisce anche l'uscita…

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Al momento della nostra partenza, non abbiamo potuto lasciare a Pasha una “macchina fotografica extra”, e lui neanche ci sperava; gli ho promesso che ne avremmo trovata una per lui, che avremmo raccolto qualche soldo e gliela avremmo comprata. O ancora, magari qualche collega ne avrebbe trovata una vecchia e inutilizzata. Il direttore, dal canto suo, ha promesso che avrebbe scaricato sul suo computer tutte le foto [di Pasha] e le avrebbe conservate fino alla nostra prossima visita. In questo modo comprenderemo ciò di cui Pasha vuole parlarci… […]

[una selezione di foto scattate da Pasha Kyshtymov]