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Esiste una generazione 11 settembre?

Categorie: America Latina, Europa centrale & orientale, Medio Oriente & Nord Africa, Nord America, Marocco, Messico, U.S.A., Ungheria, Citizen Media, Giovani, Guerra & conflitti, Politica, Relazioni internazionali, Storia
Foto di PeterJBellis, licenza Creative Commons, dal Museo dell'11 Settembre a New York [1]

Foto di PeterJBellis, licenza Creative Commons, dal Museo dell'11 Settembre a New York

Sono trascorsi dieci anni dall'attentato di Al-Qaeda dell'undici settembre 2001: un evento che ha cambiato in maniera radicale il modo in cui l'Occidente si relaziona al Medio Oriente e il suo atteggiamento nei confronti dell'Islam, comportando anche l'introduzione di nuove restrizioni ai modi di viaggiare e di attraversare le frontiere.

Questi sono anche i temi al centro di dibattiti tra giovani di tutto il mondo – che attraverso brevi video [2] [en, come tutti gli altri link, tranne ove diversamente specificato] – riflettono su cosa significhi essere diventati adulti negli anni “post 11 settembre”.

Salmaa Elshanshory [3] al momento dell'attacco viveva in Texas e, in quanto americana musulmana, ha vissuto sulla sua pelle sia quegli stereotipi negativi figli dell'ignoranza che il conforto, la premura e la generosità della comunità che in quei giorni si unì per aiutare gli stranieri dopo gli attacchi. Lei preferisce pensare che la sua generazione sia composta da persone che – nonostante le incertezze – hanno imparato a convivere con gli stranieri e ad andare avanti guardando al lato positivo delle cose.

Hisham Almiraat dal Marocco [collaboratore di Global Voices Online [4]], in quanto arabo e musulmano, racconta di essersi sentito mal rappresentato non solo dal governo, che non è stato in grado di riconoscere che molti non erano affatto d'accordo con quell'attentato, ma anche dai media e dagli attentatori stessi, i quali dichiararono di aver agito in nome di tutti gli arabi. Hisham afferma di aver constatato – a distanza di dieci anni – la diminuzione della popolarità dei regimi autocratici arabi, così come del fanatismo e dell'estremismo mentre avanzano i movimenti popolari che lottano e si organizzano per rovesciare quei regimi e rimpiazzarli con una società più egualitaria.

L'ungherese Krisztian Gal [5] nella sua testimonianza mette in luce il fatto che – pur geograficamente lontani da quel triste avvenimento – i vigili del fuoco e le scuole della scuole della sua città si organizzarono per ricordare coloro che avevano perso la vita negli attentati. Quello che ha capito in quell'occasione è che le persone riescono assumere diverse prospettive sui fatti se non sono direttamente coinvolte in uno specifico avvenimento, ma anche che relazionarsi con diverse culture e diverse nazioni è un ottimo modo per afferrare il senso della politica e delle relazioni internazionali, tanto che ha deciso di applicare questo nuovo principio alla sua vita professionale e personale.

Cristina Balli dal Texas [6] ricorda quanta paura invase la sua comunità e quanto le frontiere vennero definite come fonti di pericolo ed assunte come capri espiatori. Gli immigrati divennero qualcosa di cui aver paura e si creò una situazione per cui c'era “noi contro loro”, anche se gli attentatori non erano giunti attraverso la frontiera messicana e quelle comunità non avessero niente a che vedere con l'attentato. Quella che per generazioni era stata una frontiera fluida che aveva dato vita a scambi culturali divenne un muro e – ammette Cristina – questo ha distrutto in maniera decisiva le dinamiche sociali, cambiando il modo di vivere nella sua città.

Altri video sono reperibili sul sito del progetto Generation 9/11 [2], iniziativa del British Council's Our Shared Future [7] e Transatlantic Network 2020 [8].

La foto del titolo è di milkmit [9], ripresa su Flickr con licenza CC BY-NC-ND 2.0.