Il Gibouti al centro della lotta contro il jihadismo

Il caporale gibutiano Darojo Daher. Africacom CC-BY-20

Il caporale gibutiano Darojo Daher. Africacom CC-BY-20

Al crocevia tra Africa e penisola arabica, il Gibuti ha ormai un ruolo fondamentale nella lotta al terrorismo islamico. Territorio di basi militari straniere, prima fra tutte quella degli Stati Uniti, e terra di rifugio per i profughi, soprattutto yemeniti, questo piccolo Paese del Corno d'Africa ha visto aumentare la sua importanza strategica in modo esponenziale.

Gibuti è la repubblica dei paradossi. Circondata da Eritrea, Etiopia e Somalia, è uno degli Stati più piccoli di tutta l'Africa ma, a dispetto delle sue dimensioni, è oggi uno dei territori più ambiti dalle grandi potenze occidentali. Guidata da Ismail Omar Guelleh, al potere dal 1999, ha adottato una linea politica di orientamento filoamericano, che la popolazione inizia a non vedere più di buon occhio. I gibutiani, infatti, cominciano a prendere le distanze dall'eterna lotta al terrorismo di matrice islamica, quello di Al-Qaeda come quello dell'ISIS, poiché temono di veder fiorire un'escalation di violenza come nel vicino Yemen. Tuttavia, è proprio dal suo status di roccaforte contro il jihadismo che Gibuti trae linfa per la sua debole economia.

Gibuti, l'avamposto occidentale contro il terrorismo islamico

Grazie alla sua posizione geografica, a cavallo tra Africa orientale e Medio Oriente, Gibuti ospita già diverse basi militari internazionali e continua a essere oggetto di attenzione da parte di chiunque voglia avere un ruolo chiave nell'area. Mentre si moltiplicano gli attentati terroristici, rivendicati dall'ISIS e dalla cellula arabica di Al-Qaeda, considerata come una delle più pericolose all'interno del movimento fondato da Osama Bin Laden, le grandi potenze si danno da fare per insediare uomini e mezzi.

Se la presenza francese è quella di più vecchia data (Gibuti è stata colonia francese fino al 1977 e ha continuato a collaborare con Parigi anche dopo l'indipendenza), lo Stato africano ha iniziato a godere di un'importanza strategica crescente dopo l'11 settembre. Nel 2014, gli Stati Uniti, presenti sul territorio dal 2002, si sono impegnati a pagare 40 milioni di dollari l'anno per estendere di altri dieci anni l'affitto della loro base. Per di più, il Pentagono progetta di ampliarne le strutture, investendo più di un miliardo di dollari nei prossimi venticinque anni. Lo stesso Presidente Obama ha spiegato il motivo [en] di questa scelta:

There’s a significant presence of soldiers from Djibouti who are participating in the multinational force that has been able to push back al-Shabab’s control over large portions of Somalia

Gibuti ha contribuito, con molti dei suoi soldati, a sostenere le forze internazionali che hanno strappato molte zone della Somalia al controllo degli estremisti di Al-Shabaab.

Dopo la Francia e gli Stati Uniti, anche il Giappone e la Germania hanno voluto “reclamare” la loro parte. Ora, invece, è il turno della Cina. Certo, la richiesta cinese è motivata da ragioni essenzialmente economiche, dato che l'influenza di Pechino nella regione è in progressivo aumento, ma non è un caso che sia arrivata in un momento in cui il Medio Oriente è minacciato dall'espansione dei gruppi jihadisti: mentre i pozzi petroliferi di Siria e Iraq cadono nelle mani dei militanti dell'ISIS, il governo di Xi Jinping cerca di assicurarsi l'accesso al petrolio dei Paesi del Golfo.

Gibuti, un'oasi di pace per i rifugiati

La presenza dei militari stranieri garantisce al governo di Guelleh risorse economiche considerevoli, per un totale di circa 200 milioni di dollari. La popolazione, però, raramente ne percepisce i benefici: tanto basterebbe ad attizzare il profondo risentimento dei gibutiani verso le forze internazionali presenti nel loro Paese. Gibuti, però, è anche un porto sicuro per chi fugge dai Paesi vicini, in preda a guerre e conflitti. Mentre infuriano gli attacchi terroristici ad opera di Al-Qaeda, ISIS e altri gruppi estremisti, come Ansar Allah, il gruppo sciita che semina il panico in Yemen, o Al-Shabaab, il movimento estremista somalo affiliato ad Al-Qaeda, i rifugiati si riversano in massa sul territorio di Gibuti, uno dei pochi Paesi ad accogliere profughi anche dallo Yemen.

Secondo le proiezioni dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), nei prossimi sei mesi saranno più di quindicimila gli yemeniti che si arrischieranno ad attraversare il Golfo di Aden, il braccio di mare che li separa da Gibuti. Come sottolinea Frederic Van Hamme, portavoce dell'UNHCR:

Il est certain que cela va mettre la pression sur l'Etat. C'est un petit pays qui doit déjà faire face à la sécheresse, à un fort taux de chômage et une grande pauvreté.

Le nuove ondate di profughi aumenteranno le pressioni su uno Stato già fiaccato da siccità, alti tassi di disoccupazione e povertà diffusa.

Come se non bastasse, la difficile situazione economica favorisce ormai da anni il prosperare di un commercio tanto inquietante quanto attuale: il traffico dei clandestini tra Corno d'Africa e penisola arabica. Tuttavia, con la guerra in Yemen che ha interrotto le attività dei trafficanti, i clandestini in attesa di passare in Asia sono tutti fermi a Gibuti. Se le forze straniere presenti non agiranno in fretta, la presenza crescente di clandestini e rifugiati, insieme a un'economia fragile, potrebbero portare al collasso il piccolo Gibuti, chiave di volta nella lotta al terrorismo islamico.

L'articolo è stato scritto da Alassane Ndoumbè, autore senegalese che vive a Dakar.

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