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Siria: cosa non vuol dire perdonare

Categorie: Medio Oriente & Nord Africa, Siria, Citizen Media, Guerra & conflitti, Idee, The Bridge
Aleppo, Syria. Photograph shared by IHH Humanitarian Relief Foundation on Flickr (CC BY-NC-ND 2.0) [1]

“Vorrei che solo uno dei sostenitori del “perdona e dimentica” possa garantire che questo perdono risparmi la Siria da questa follia, che sta accadendo di nuovo, e che non sia invece un premio per gli assassini,” scrive Marcell Shehwaro. Bambini in una strada di Aleppo, Siria. Fotografia condivisa da IHH Humanitarian Relief Foundation su Flickr (CC BY-NC-ND 2.0)

Questo post fa parte di una serie speciale [2][en] di articoli intolata “Dispacci dalla Siria: Marcell Shehwaro racconta la vita ad Aleppo” [tradotti in italiano finora, elencati dal più recente: 1 [3], 2 [4], 3 [5], 4 [6]]. Questi pezzi della blogger e attivista Marcell Shehwaro descrivono la vita quotidiana in Siria durante il conflitto armato in corso tra le forze leali al regime e coloro che cercano di ostacolarlo.

All'inizio, ero bellissima, e dentro di me avevo la bellezza potente della rivoluzione, la convinzione che fossimo qui per portare un cambiamento e che l'odio non potesse mai essere uno strumento di questo cambiamento; non avevamo alternativa che essere pazienti ed aspettare che gli altri rompessero il muro di silenzio e umiliazione e si unissero a noi. Credevamo che tutti avessero il proprio destino, dovevamo aspettare i loro primi vagiti. E abbiamo aspettato.

Avevamo abbastanza lusso, comodità, chiarezza nella visione e spazio per più dolore. Seguivo le foto dei soldati dell'esercito morti, pubblicate sui social media. Mi offendevano le persone che ridicolizzavano la loro morte. Leggevo i commenti di madri, fratelli, sorelle, amici, fidanzate. Le vittime erano giovani uomini sulla ventina. Ero diventata così ossessionata che cercavo le loro pagine personali per scoprire di più sulla persona che stava dietro al viso della vittima, o del colpevole, o di entrambi.

“Avevamo abbastanza lusso, confort, chiarezza nella visione e spazio per più dolore. Seguivo le foto dei soldati dell'esercito morti, pubblicate sui social media. Mi offendevano le persone che ridicolizzavano la loro morte. Leggevo i commenti di madri, fratelli, sorelle, amici, fidanzate.”

Ad alcuni era stato fatto il lavaggio del cervello. Ci consideravano dei criminali o dei vandali sostenuti da Israele, che volevano minacciare la sicurezza del Paese. Un Paese che loro credevano avrebbe combattuto i suoi nemici grazie alla saggezza del suo Presidente, del quale sapevano solo che era insostituibile. Erano così ossessionati dal voler difendere il loro Paese fino a distruggerlo.

Altri erano seguaci di ideologie faziose, portatrici di paura e odio. Credevano che li avremmo influenzati tutti, e che il nostro obiettivo non fosse la democrazia, ma che eravamo guidati da un rancore verso di loro, le loro famiglie e le sette. Un rancore che loro credevano li avrebbe ingoiati, se loro non lo avessero ingoiato per primi.

Altri, invece, le cui pagine erano le più dolorose da vedere, erano agitati davanti alla loro morte. Contavano le ore fino al giorno della partenza, che le loro madri non avrebbero potuto vedere, in attesa della promessa della licenza dall'esercito che non veniva mai rispettata.

Allora ho potuto vedere loro, come noi, vittime di un regime che ci ha costretto a scendere in strada per rovesciarlo, e li ha obbligati ad ucciderci per mantenere il controllo del governo.

A poco a poco, la lista è diventata troppo lunga per me per poter seguire i loro profili personali e i loro sacrifici. Detenuti e martiri. Correvo da un funerale all'altro. Stavano uccidendo troppi di noi, e il peso si sentiva sempre di più sulle mie spalle. La povertà e il lavaggio del cervello non erano più una scusa. La paura non bastava più a scusarci per essere diventati una macchina da guerra. Ai miei occhi, ha iniziato a diventare un tutt'uno con il colpevole e il suo viso, il suo lavoro e tutto ciò che lo riguardava. Ai miei occhi, sono diventati tutti Bashar Al Asaad, non solo le sue vittime. A poco a poco ha iniziato ad indietreggiare, nascosto nel suo palazzo mentre la manifestazione più vera di ciò lui e il suo regime erano era l'aguzzino in prigione, il soldato sul campo, l'elicottero nel cielo.

Ci era rimasta poca energia, e non ci bastava per combattere contro noi stessi e per combattere contro l'idea semplicistica di considerarli dei meri “assassini”. Lo sforzo di considerarli come noi divenne estenuante, stavamo diventando di più come loro, assassini, che come noi, vittime.

“Ai miei occhi, ha iniziato a diventare un tutt'uno con il colpevole e il suo viso, il suo lavoro e tutto ciò che riguardava lui. Ai miei occhi, sono diventati tutti Bashar Al Asaad, non solo le sue vittime. A poco a poco ha iniziato ad indietreggiare, nascosto nel suo palazzo mentre la manifestazione più vera di ciò lui e il suo regime erano era l'aguzzino in prigione, il soldato sul campo, l'elicottero nel cielo.”

Avevano la capacità di godere dal torturare qualcuno a morte. Davano ordini di usare armi chimiche, o di accoltellare a morte un bambino a Houleh, Homs. Un massacro che ci ha tolto ogni possibilità di combattere l'odio. Il nostro odio è diventato parte della nostra battaglia per l'esistenza. Avevamo bisogno della rabbia per sopravvivere, per capire di nuovo che la violenza nei nostri confronti non era “normale” o “ordinaria”. Avevamo bisogno della rabbia per liberare le nostre vite e rifiutarci di darla vinta alla morte. “Vale la pena di vivere la vita”: vero, forse, ma in questa non c'è più abbastanza bontà per permettere all'assassino e alla vittima di vivere insieme.

Da quel giorno non abbiamo più avuto paura di ucciderli.

Dopo, era logico per l'ISIS emergere dal nostro odio. Con la loro presenza, abbiamo iniziato ad avere di nuovo paura in zone dove pensavamo di aver già pagato abbastanza con il sangue. In Siria, niente è gratis; tutto ha un prezzo, soprattutto i diritti. Sono di nuovo alla casella di partenza, cercando di fare amicizia con questo nemico. Questa volta, mi giustifico dicendo che loro sono stati vittime di violenza e odio. Vittime con una causa giusta contro un mondo che ha ignorato loro e tutto ciò che è successo loro.

Alcuni di loro erano radicalizzati, e ai loro occhi noi eravamo infedeli sostenuti dagli USA per distruggere il Levante. Altri erano mossi dall'odio, dalla paura e dalla rabbia, credevano di essere gli unici a difendere lo Stato dell'Islam. Altri erano attratti dalle immagini di foreign fighter, armati fino ai denti, rispetto alle loro armi sgangherate e alle poche munizioni. Erano ragazzi che credevano che l'ISIS fosse una partita di Counter Strike nella vita reale. Fino a ieri, alcuni erano “uno di noi”, vittime come noi, fin quando si sono annoiati di giocare a questo gioco, hanno capito che sarebbero morti comunque, e hanno deciso di non voler morire da vittime ma da assassini.

“Altri erano mossi dall'odio, dalla paura e dalla rabbia, credevano di essere gli unici a difendere lo Stato dell'Islam. Altri erano attratti dalle immagini di foreign fighter, armati fino ai denti, rispetto alle loro armi sgangherate e alle poche munizioni. Erano ragazzi che credevano che l'ISIS fosse una partita di Counter Strike nella vita reale…”

Mi sono abituata in tempo, più velocemente questa volta, al ciclo vittima/assassino. Ho perso la mia compassione per loro e quel senso di colpa che provavo chiedendomi se potessimo fare qualcosa per impedire che diventassero più pazzi.

Sono diventati i nostri nemici. Riuscivo a malapena a provare dolore. Il dolore che mi era rimasto non bastava per le centinaia di vittime che morivano ogni giorno, anche se loro non avevano ucciso nessuno. E la mia ossessione è: cosa può essere considerato giusto oggi? Come decidiamo chi è la vittima di un regime oppressivo, locale o universale, e chi è il fautore di questo regime e il suo profeta? Qual è la giusta punizione per una pedina del gioco di potere, soldi e paura?

Vorrei che l'anima della rivoluzione fosse abbastanza per me per permettermi di perdonarli tutti, anche solo “nella mia testa”.

Vorrei che solo uno dei sostenitori del “perdona e dimentica” potesse garantire che questo perdono risparmierà la Siria da questa follia, che sta accadendo di nuovo, e che non sia invece un premio per gli assassini.

Vorrei che questo perdono non significhi la nostra complicità nel dimenticare i diritti di coloro che non ci sono più, delle vittime, perché loro sono i più deboli. Vorrei poter odiare tanto il regime e trovare ai suoi angeli della morte svariate scuse. Vorrei poter odiare l'ISIS a morte e trovare ai suoi giovani soldati migliaia di scuse.

Ma sono destinata ad essere arrabbiata. Sono furiosa per essere sopravvissuta. Sono furiosa per la mia incapacità di cambiare ciò che è stato e che sarà.

Si può provare dolore da entrambe le parti, quanto lo si desidera, ad ogni livello di dispiacere o ipocrisia. Che si tratti della persona che ancora combatte per il regime, o di coloro che hanno dichiarato fedeltà all'ISIS. Si può provare dolore per entrambi, se si ha ancora spazio sulle spalle. Ma non si può sfruttare questo ciclo di vittima/assassino e chiudersi in questo. Farci pressione fino a farci dimenticare chi eravamo e cosa abbiamo perso. Obbligarci a perdonare e dimenticare. Non potete farci tutto questo senza dimostrarci, per una volta, in che modo questo perdono impedirà alla storia di ripetersi di nuovo.

Non potete farci tutto questo senza dirci come la vostra posizione, distante da tutte le parti, possa garantirci un po’, e solo un po’, di giustizia.