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Nizza: dobbiamo affrontare la violenza del reale

Categorie: Europa occidentale, Francia, Senegal, Citizen Media, Disastri, Religione
Hommage à Nice via @jeanlucr sur twitter [1]

Omaggio a Nizza via @jeanlucr su Twitter.

Mentre la Promenade des Anglais era ancora disseminata di cadaveri, i dibattiti post-attentato in Francia, già prima non eccelsi, aggiungevano stavolta l’indecenza all’infamia. Nemmeno il tempo del lutto esiste più, nemmeno la tregua dovuta allo choc, che concede una pausa all’emozione. Ogni vita interrotta è ridotta alla sua dimensione impersonale, a un numero, e sarà qualche giornale a occuparsi poi più tardi di ricostruire con meccanica compassione la vita delle vittime. Perché prima, sul bitume di Nizza dove ancora crepitavano corpi e terrore, c'è un ben triste spettacolo ad attirare la nostra attenzione: le perizie, controperizie e ipotesi mediatiche, equivalenti nell'oscenità ai dibattiti sui social network e alla bassezza di una classe politica che sfiora gli abissi. Cominciavano così il valzer necrofilo e le abiette discussioni su come qualificare il massacro. Atto di uno squilibrato o terrorismo islamista? La repentina irruzione di una simile domanda maschera in realtà un disagio. La strada è spianata per le cattive interpretazioni troppo orientate, recuperate fanno a gara con il tentativo di scongiurare un malessere reale. Questione ancora più oscena se si pensa che alcuni sarebbero soddisfatti se fosse risolta. Non si tratta di islam? Tirerebbero persino un sospiro di sollievo. È stato uno squilibrato? Un’ipotesi che eliminerebbe l’urgenza del problema, eccoci tratti d’impaccio; alla fine, l’argomento della «follia» dell’uomo, assai comodo, si addossa e chiude ogni possibile pista di riflessione. Siamo in realtà ai confini di un malessere che si scongiura tramite la controaccusa, la negazione e, nel peggiore dei casi, il «complottismo».

La negazione originaria

Il paradigma della lotta anti-terrorista in Francia per come è enunciato e si è radicato nel corso del tempo, tra la pesantezza delle colpe coloniali e geopolitiche e il rifiuto assoluto di pensare il religioso per tradizione e predisposizione ideologica, distrugge il campo della riflessione. Se continuiamo a vedere nelle imprese sanguinarie di gruppi o individui, falangi di sistemi politico-religiosi ben sofisticati, solamente le manifestazioni di un delirio, spiegate tramite l’esclusione sociale, la fragilità, lo squilibrio psicologico o affettivo, non è per il semplice piacere di avere spiegazioni razionali. Si tratta della volontà di «lavare» una religione in seno alla quale il malessere è invece visibile e palpabile. All’inizio della recente ondata sanguinaria che ha colpito la Francia, cui Merah diede la sinistra battuta d’inizio, ci si era impegnati di riflesso, in modo salutare per non compromettere ulteriormente equilibri già fragili, a dire che «tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’islam». A dispetto di un concatenarsi crudele dell’attualità, si è arrivati a dire che «tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’islamismo». Uno slittamento importante e non soltanto semantico ci porta a dire dopo l’orrore di Nizza che «tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’islamismo radicale». Il filo di questa progressione è coerente con la profezia del «avernullaachevederismo». Tale paradigma destabilizza tutto, perfino l’uso delle parole. Così, invece che di terroristi, si parla di «assassino», «odio», «camion folle». Come se l’odio non avesse un oggetto, una motivazione; l’assassino, un messaggio; il camion, un autista. Come se il terrorismo contenesse in se stesso il proprio fine… La figura del lupo solitario, un tempo paravento semantico, serviva ad epurare qualsiasi carattere ideologico ma si è esaurita nella sua stessa incoerenza.

Ideologia: devozione e deviazione

Il male si annida in realtà in qualcosa di inconfessabile o incosciente. Sembra impossibile, per molti, concepire che a livello planetario degli individui di ogni condizione sociale, etnia, storia, aderiscano ad una ideologia letale che ordina ed invoglia ad uccidere in suo nome. Che questa ideologia oltre i confini raccolga nel suo percorso diversi profili, offrendo così corpo e redenzione a qualsiasi idea criminale, o anche la susciti. Contrariamente a ciò che si è soliti pensare, questa ideologia condivide con numerose insospettabili entità delle analisi comuni sulla posizione delle minoranze e dell’islam in occidente. Di conseguenza, recruta più facilmente su un terriccio fatto di odio e risentimento. Per prosperare, la narrazione islamista si fa portavoce di musulmani oppressi ai quali offre soccorso. Da qui l’uso da parte di alcuni della violenza, qui legittimata come riflesso naturale. Che questa frangia si chiami islamismo terrorista, che dissolva intere civiltà e le loro ricchezze nel suo acido, che in tutti i territori conquistati promuova già una visione settaria del mondo, tale ideologia dalle disponibilità finanziarie disparate si esporta e seduce, in cerca di brecce geopolitiche e di miseria sociale per disseminare il suo veleno. Coltivando come ogni impresa politica il proprio opportunismo, ha una propria agenda e una propria visione dell’attualità. Si diffonde quindi sul caos, per attitudine, nell’umanitario, nella giustizia sociale, come fu da esempio la confraternita dei fratelli musulmani. Non sempre quindi tramite la violenza, ma con una pedagogia che unisce risentimento, paranoia, apologia della sedizione e sfruttamento delle conseguenze coloniali. Ecco le basi comuni. Ma le frange più radicali esaltano la violenza, inebriate dalla mitologia delle conquiste ai tempi del profeta. Deviando dal messaggio coranico o trovandovi, con delle referenze religiose, delle esegesi sanguinarie. La disinvolturaa con cui ci si limita a dire che tutto ciò è completamente estraneo all’islam è la negazione originaria che annuncia la pochezza dell’analisi.

Stato d'animo #pregateperNizza

Scongiurare il malessere

Non si tratta affatto di attaccare i musulmani: alcuni credenti subiscono i tormenti di un'irosa islamofobia da combattere fermamente. Si tratta di sottolineare che in seno all’islam ha luogo una guerra ideologica e che per essere nocivi gli estremisti non hanno bisogno di essere in maggioranza. L’utilizzo della violenza è per essenza l’ammissione dell’incapacità a convincere. L’urgenza di discolpare l’islam, entità impersonale, non è che il riflesso di un malessere interno e comprensibile a molti musulmani che si sentono macchiati dall’infamia di questa cancrena. Tale malessere si propaga in certe persone tramite l’accusa, il presupposto islamofobico. Ma negando tutte le connessioni interne al problema si produce la generalizzazione tanto temuta per cui designare l’ideologia islamista significa meccanicamente puntare il dito contro i musulmani. Se le cause sono molteplici e una certa umiltà suggerisce di non dare risposte definitive, non vi è alcun motivo per cui allontanare la dimensione politica e quella religiosa del problema. Il malessere accusatorio si riferisce quindi a questa situazione di disagio, in cui quasi si prega che l’atto non abbia alcun legame con la motivazione religiosa. Per molti gruppi militanti comunitari e religiosi significherebbe condividere una diagnosi con i terroristi, obiettivamente i peggiori alleati che ci siano, quindi ci sarebbe disordine e discredito sul loro commercio politico. Ecco dove risiede il malessere: tutta una narrazione sarebbe turbata dal riscontro di legami tra attentati e gruppi islamisti. Per scongiurare un simile disagio si diffonde la negazione, la controaccusa anticipata, contro, ad esempio, dei gruppetti di destra pronti a venire alle mani. Ma anche delle espressioni più abituali della negazione, come la paranoia e ben altri nascondigli per sfuggire all’evidenza. Costa molto meno che affrontare la violenza del reale.

Testo di Elgas, giornalista e sociologo senegalese