Nel mezzo della bufera riguardo al divieto ora annullato della Francia [en, come i link seguenti salvo diversa indicazione] di indossare “abiti apertamente religiosi”, ancora una volta ci stiamo focalizzando sull'aspetto sbagliato della storia: l'effetto, non la causa. E credo che la “causa” vada oltre la religione o la cultura. Sfumature a parte, è qualcosa di comune attraverso paesi e culture che va avanti da secoli.
Il divieto è stato amplificato dalle famigerate immagini virali di un poliziotto su una spiaggia a Nizza, in Francia, che ha costretto una donna a togliersi parte del suo burkini. Quindi nuovamente, questa volta con una pistola puntata, alle donne viene detto come non provocare disturbo, riducendo il nostro ruolo sociale a ciò che indossiamo o non indossiamo.
E se, invece di provare a imporre codici di abbigliamento alle donne, provassimo a crescere ragazzi e uomini che rispettano le donne indipendentemente dalla nostra forma, colore o abbigliamento? Se tutte le energie spese nel far rispettare divieti o nel discutere se il velo sia un accettabile segno di devozione, o se la scollatura delle donne sia provocante, fossero invece usate per prevenire e punire le molestie sessuali per strada?
Se invece di giudicare le donne come “modeste”, “rispettabili” o “puttane” sulla base dei loro vestiti, cominciassimo a giudicare le persone in base alle loro azioni e alle idee espresse? Se smettessimo di indignarci nel vedere le donne allattare in pubblico? Se Facebook la finisse di mettere dei quadrati neri sui nostri seni? Se ci opponessimo, invece, alla abituale mercificazione delle donne nelle pubblicità e sulle riviste di moda?
Se tutti questi sforzi promossi dallo stato per mostrare il proprio “impegno” nei confronti dei diritti delle donne fossero messi genuinamente al servizio della prevenzione della violenza domestica?
Forse, se le strade fossero più sicure per le donne, queste non sentirebbero il bisogno — o sarebbero forzate, in alcuni casi — di coprirsi. Forse se le strade fossero più sicure, le donne potrebbero scegliere i loro vestiti da sole, e a nessuno interesserebbe.
Forse se non si desse così tanta attenzione ai simboli e ai capi di vestiario, potremmo iniziare a lavorare per realizzare un'autentica coesistenza.
È inoltre triste e preoccupante vedere tutte le parti in gioco usare la cultura, la tradizione e, ovviamente, la religione come capri espiatori, quando il problema reale ha a che fare con il desiderio profondamente radicato di praticamente tutte le società di controllare le donne. Le nozioni patriarcali di cosa sia e non sia accettabile sono così radicate nella nostra psiche che le donne arrivano al punto in cui realmente credono — e persino difendono — l'idea che stiamo davvero compiendo delle scelte. Ma lo facciamo davvero?
Fortunatamente, non vivo in un paese in cui devo preoccuparmi che un poliziotto mi persegua e mi multi perché non sembro abbastanza pia, o mi spogli in nome della libertà. Ma penso davvero due volte a cosa indossare quando uso i mezzi pubblici, o cammino davanti a un cantiere, perché le possibilità di essere molestata aumentano se faccio determinate scelte. Quindi posso capire bene il desiderio o l'intenzione di diventare in qualche modo invisibile per evitare conseguenze indesiderate. E anche se non sono musulmana — o religiosa in generale — sostengo pienamente le mie sorelle con il velo.
Questo post su Facebook [es] di Demonio Blanco riassume il problema, chiamandolo “purplewashing”:
Purplewashing es una expresión que refiere al uso del feminismo como excusa para actitudes intolerables, como la islamofobia.
Si te preocupa más que una deportista juegue con velo a que el resto lo hagan en bikinis minúsculos o a que los fotoperiodistas usen este tipo de encuadres, es muy posible que sea purplewashing.
Si odias el reguetón porque es machista pero no a Los Planetas, es posible que sea purplewashing.
Mujeres con velo, en bikini, que hacen punk o que perrean: somos todas hermanas y cada una se sacude el patriarcado como le da la gana.
Si realmente te preocupa mucho la opresión que sufrimos, echa un cable parando a tus colegas cuando nos tratan como a objetos en un bar o cuando hacen chistes de violaciones. No vale ver sólo la paja en el ojo ajeno.
— Vega Pérez-Chirinos Churruca.
Purplewashing è un'espressione che si riferisce all'uso del femminismo come scusa per atteggiamenti intollerabili come l'islamofobia.
Se sei più preoccupato che una sportiva giochi con un velo piuttosto che le restanti compagne giochino in striminziti bikini, o che i fotoreporter usino scatti come questo [primo piano di beach volley], è fortemente possibile che sia purplewashing.
Se odi il reggaeton perché è maschilista, ma non Los Planetas (un gruppo indie spagnolo), è molto probabilmente purplewashing.
Donne velate o in bikini, che ballate il punk o fate twerking: siamo tutte sorelle e ognuna di noi sfugge al patriarcato nel modo che ritiene adatto.
Se siete davvero preoccupati dell'oppressione che viviamo, fate qualcosa fermando i vostri colleghi quando ci trattano come oggetti nei bar o quando fanno battute sullo stupro.
Non è accettabile vedere i difetti solo negli altri.
— Vega Pérez-Chirinos Churruca. [es]
Quindi, cosa indosseremmo se non ci fossero regole religiose, se non dovessimo preoccuparci dello sguardo sgradevole degli altri, della violenza o della stigmatizzazione? Quali scelte faremmo se non venissimo cresciute così imbarazzate dei nostri corpi e dei loro effetti collaterali?
Focalizzandoci sul divieto del burkini, e non sulla sistematica violazione dei diritti delle donne che sta dietro alla storia di un costume da bagno, stiamo davvero facendo qualcosa di significativo?