Il Kirghizistan è un'oasi di pace per i reporter oppressi dell'Asia centrale

Cartina politica dell'Asia centrale. Pubblicata sotto licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license.

Il seguente post è prodotto da EurasiaNet.org [en, come tutti i link seguenti] nostro sito partner, scritto da Zukhra Iakupbaeva, autrice proveniente dal Kirghizistan anche autrice per Global Voices. Ripubblichiamo con il suo permesso.

Situato in una regione difficile per i giornalisti, il Kirghizistan è un paese relativamente sicuro. Negli anni, reporter provenienti da diverse parti dell'Asia centrale si sono stabiliti qui — spesso per stare al sicuro e crescere a livello professionale, altre volte per motivi più personali.

L'indice per la libertà di stampa stilato da Reporter Senza Frontiere, che classifica i paesi del mondo in base a questa caratteristica, parla chiaro: l'Asia centrale non è un territorio ospitale per il libero flusso delle informazioni e il giornalismo indipendente. Paesi come il Turkmenistan e l'Uzbekistan si posizionano in fondo alla classifica, insieme a nazioni come la Corea del Nord e l'Etiopia. I media in Tagikistan sono stati a lungo oggetto di pressioni, ma la repressione si è intensificata a partire dalla fine del 2015 e ha portato alla fuga di decine di giornalisti.

Le storie di tre giornalisti emigrati da diverse aree dell'Asia Centrare sono un chiaro esempio di come Biškek si sia affermata come principale destinazione di chi è alla ricerca di libertà creativa e intellettuale.

Diana Rakhmanova, giornalista ventisettenne del Tagikistan, ha raccontato di come un viaggio in Kirghizistan nel 2010, durante un corso di tre mesi organizzato dall'emittente tedesca Deutsche Welle, abbia cambiato completamente il suo modo di approcciarsi al giornalismo.

“Quello che mi ha sorpreso maggiormente durante la mia permanenza a Biškek è il cittadino medio interessato alla politica, che ha accesso alle informazioni dai funzionari statali. Sono proprio questi ad avere paura dei giornalisti e c'è un uso molto attivo dei social network”, è quanto racconta la Rakhmanova a EurasiaNet.org, mentre sorseggia caffè in uno dei tanti bar di Biškek.

Una pausa pranzo fortunata ha permesso a Rakhmanova di conoscere un giornalista locale che le ha offerto un posto di lavoro a Biškek, città in cui lei è tornata un anno dopo il corso. Ha dovuto apportare molti cambiamenti alla sua vita, come afferma. “Non riuscivo a ricordare nessun cognome kirghiso e non sapevo assolutamente nulla sulle fazioni politiche,” ci dice.

Le sue radici etniche tatare le hanno permesso di comprendere alcuni aspetti della lingua. “Capisco quando la gente mi risponde in kirghiso alle domande che faccio in russo. Questo perché conosco la lingua tatara molto bene; i miei parenti in Tagikistan la parlano fluentemente.”

Talvolta le tensioni regionali sono state causa di seccature burocratiche. “Una volta mi trovavo in Kazakistan e non mi è stato permesso di rientrare in Kirghizistan per via di uno scontro a fuoco avvenuto in una parte contesa del confine tra Kirghizistan e Tagikistan. Ho anche la cittadinanza russa, e in quel caso il passaporto russo mi è stato d'aiuto per risolvere la situazione”.

La Rakhmanova ha affermato di non avere intenzione di tornare in Tagikistan.

“Non voglio tornare in Tagikistan perché non sarei in grado di riabituarmi alla mancanza di libertà di parola,” ha detto. “E qui ho la mia famiglia, mio marito e mio figlio di un anno.”

Anche in altri casi la famiglia conta e le relazioni a volte sono più importanti delle motivazioni professionali per i giornalisti.

Elyor Nematov, un fotoreporter di 28 anni proveniente dalla città di Bukhara in Uzbekistan, ha detto che i suoi amici erano sorpresi quando ha deciso di trasferirsi nella capitale kirghisa, Biškek. Ha spiegato che voleva essere più vicino alla fidanzata, che viveva lì, e solo più tardi ha scoperto le opportunità di affinare le sue capacità di fotografo documentarista che il paese offriva.

Nematov ha spiegato che in Uzbekistan quello che gli ha causato problemi non era il suo lavoro, bensì la sua fede Bahai.

“Quando ero studente, la polizia sospettava che potessi essere un estremista a causa della mia fede. A Taškent la polizia mi ha trattenuto per 15 giorni perché ero accusato di aver opposto resistenza durante un'operazione speciale anti-estremismo. Mi stavano registrando e chiesi loro di mostrarmi i loro documenti e di spiegarmi perché mi stessero arrestando,” racconta.

Nematov adotta una filosofia rilassata rispetto a dove vive. “Non percepisco i confini, mi trovo in Kirghizistan, ma racconto l'Asia Centrale,” ha affermato.

Come la Rakhmanova, anche Nematov non ha intenzione di lasciare il Kirghizistan. Il suo sogno per ora è quello di fondare un centro di fotogiornalismo documentaristico a Biškek, per sostenere chi lavora come lui in tutta l'Asia Centrale.

Il luogo più pericoloso dell'Asia Centrale per reporter e ricercatori indipendenti è il Turkmenistan. Le pochissime persone che hanno osato cimentarsi nel giornalismo indipendente sono state vittima di intimidazioni, arresti e aggressioni.

Olga, 33 anni, è arrivata a Biškek dal Turkmenistan nel 2001. Ora lavora come analista politico nelle istituzioni scolastiche di Biškek e occasionalmente scrive articoli sui diritti umani, l'educazione e le questioni che riguardano petrolio e gas in Turkmenistan.

Olga ha fatto il suo primo viaggio in Kirghizistan da studentessa. “Ho passato quasi interamente il mio primo anno all'Università Americana dell'Asia Centrale a Biškek in biblioteca. Leggevo avidamente, era un vero e proprio piacere,” ha raccontato Olga a EurasiaNet.org, chiedendo di essere identificata tramite pseudonimo.

La metà degli anni 2000 è stata un periodo buio per l'istruzione in Turkmenistan. Nel febbraio del 2005 il Presidente Saparmurat Niyazov ha stabilito con decreto che le biblioteche fuori dalla capitale fossero inutili, dato che la maggior parte di chi abitava nei paesini non leggeva. Di conseguenza, Niyazov ha ordinato la chiusura di quasi tutte le biblioteche del paese, fatta eccezione per le poche grandi biblioteche e quelle per studenti.

Questa ed altre politiche assicuravano l'isolamento del Turkmenistan dal resto del mondo e hanno portato Olga a capire che le sue possibilità sarebbero state limitate nel suo paese. “Sono rimasta in Kirghizistan perché era difficile trovare un lavoro [attinente alle mie qualifiche] in Turkmenistan,” racconta, aggiungendo che un altro limite era il fatto di non conoscere la lingua turkmena. “Le imprese di petrolio e gas, che prosperavano all'epoca, sarebbero state la scelta più ovvia, ma cercavo qualcosa nell'ambito dello sviluppo sociale.”

Quando le abbiamo chiesto se avesse intenzione di fare ritorno in Turkmenistan, Olga ha detto che preferisce non pensarci, e concentrarsi piuttosto sui suoi studi futuri e su suo figlio di sei anni. La sensazione di libertà instillata in lei dalle esperienze fatte in Kirghizistan sarebbe difficile da conciliare con la forte repressione in Turkmenistan.

Per evidenziare quanto sia complessa la situazione nella sua madre patria, Olga ricorda che quando è scoppiata la rivoluzione in Kirghizistan nel 2005 lei era studentessa all'Università Americana dell'Asia Centrale. I suoi genitori avevano ricevuto una telefonata dai servizi di sicurezza. “Loro [gli agenti di sicurezza] volevano sapere se fossi coinvolta nella rivoluzione,” dice.

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