Il pericolo non dovrebbe essere il loro mestiere: parlano i giornalisti al festival dei diritti umani di Milano

Relatori al FDU

Alcuni dei relatori intervenuti al Festival dei Diritti Umani di Milano ritratti da Gianluca Costantini. Fonte: pagina Facebook del Festival.

Quando si parla di giornalisti che hanno perso la vita per l'informazione, capita di imbattersi in commenti cinici. “Cosa diavolo ci facevano Andrea Rocchelli e Andrej Mironov in mezzo alle beghe tra Russi e Ucraini?”, “Chi gliel'ha fatto fare a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin di ficcare il naso in Somalia?”, “Chissà cosa cercava davvero Giulio Regeni in Egitto… e Gabriele Del Grande in Siria?” Come a dire, tra le righe, che se la sono andata a cercare.

Eppure c'è chi sa che fare il reporter può essere un mestiere nobile e pericoloso. Lo sa bene Danilo De Biasio, il direttore del Festival dei Diritti Umani, che ha accolto emozionato il pubblico che gremiva il Salone d'Onore della Triennale di Milano per l'evento del 3 maggio, dedicato proprio alle condizioni in cui i giornalisti sono costretti a lavorare quando si tratta di far luce sulle verità più scomode. E lo sa bene Gabriele Dossena, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che durante il festival, in una riflessione sulla giornata mondiale della libertà di stampa, sottolinea che negli ultimi dieci anni sono stati uccisi quasi 900 giornalisti in tutto il mondo, due terzi dei quali erano freelance.

Freelance vuol dire precario. Meno tutele giudiziarie, nessuna copertura assicurativa in caso di pretestuose querele per diffamazione, poca protezione verso minacce e aggressioni (si stima che tra i trenta e i cinquanta giornalisti italiani siano costretti a vivere sotto scorta), e tutto per compensi irrisori: la retribuzione minima per un articolo ammonta a 3,10 euro lordi, racconta Paolo Borrometi, giornalista pluripremiato che vive sotto scorta.

L'alternativa è il silenzio?

A sentire i racconti di Amalia De Simone e Paolo Borrometi, si direbbe che la risposta dipenda dall'atteggiamento di chi dovrebbe garantire che il lavoro dei giornalisti si svolga in modo libero e protetto, cioè gli editori e i sindacati. De Simone e Borrometi hanno molto in comune: giornalisti d'inchiesta, dedicati principalmente a stanare il malaffare in Sicilia e in Campania, senza paura di andare a disturbare boss e malavitosi potenti. Ma se Borrometi, quando si trova a doversi difendere dalle violenze del boss di Vittoria (Ragusa), è spalleggiato dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana che si costituisce parte civile al suo fianco, De Simone si trova a doversi guardare le spalle non solo dai faccendieri, ma dai suoi stessi editori, che le chiedono un risarcimento.

Oltre alle minacce e alle violenze fisiche, chi vuole impedire che i propri affari vengano alla luce dispone di uno strumento efficacissimo: la querela temeraria (che, secondo i giornalisti presenti al festival, sarebbe meglio chiamare “pretestuosa”). Querelare un giornalista non costa nulla al querelante, ma costa moltissimo al querelato che, anche se è nel giusto, dovrà affrontare tutte le conseguenze e le spese per la propria difesa. Un cronista può decidere di correre un tale rischio solo se sa di poter contare sull'appoggio del suo editore, prima di tutto, ma anche dell’Ordine dei Giornalisti. L'alternativa, quindi, non è il silenzio, ma fare squadra.

Nadia Azhghikina: Una solidarietà che può e deve varcare i confini nazionali

Giardino Anna Politkovskaja

Il giardino dedicato ad Anna Politkovskaja nel centro di Milano. Foto dell'autrice.

La prima cosa che Nadia Azhghikina, vicepresidente della Federazione Europea dei Giornalisti, ci tiene a raccontare è la sua visita al giardino nel centro di Milano dedicato ad Anna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata nel 2006, probabilmente a causa dei suoi reportage contro il governo. In Russia non ci sono giardini né piazze a lei dedicati e l'inchiesta sul suo omicidio è a un punto morto, come moltissimi altri omicidi di giornalisti russi (più di 350 dal 2009), rimasti senza un colpevole.

“È solo in uno sforzo comune,” dice Azhghikina, “che potremo arrivare a ripristinare quella libertà che non si costruisce solo con le lotte e le barricate, ma nei semplici gesti quotidiani”. In Russia, la libertà di stampa faticosamente ottenuta all'inizio degli anni '90 è andata perdendosi man mano che i media sono diventati uno strumento utile ai poteri economici, oltre che politici, e i giornalisti hanno cominciato a scrivere per soldi, molti soldi, illudendosi di poter affidare l'attività di informazione al mercato liberista, e non ai sindacati.

Ma stanno pagando a caro prezzo quell'illusione. Esistono leggi a tutela dei giornalisti, ma nessuno chiede la loro applicazione, perché il pubblico non considera la libertà dei giornalisti come un problema. Nemmeno tra colleghi c'è appoggio reciproco, e Azhghikina ritiene che la solidarietà tra i giornalisti italiani — pensa alle mobilitazioni per il rapimento di Giuliana Sgrena, ma anche alla vicinanza dimostrata a chi si trova a dover affrontare le mafie — rappresenti un grande esempio, che potrebbe essere di ispirazione per i colleghi russi.

Ahmet Insel: fare il giornalista oggi in Turchia è una roulette russa

Interviene al Festival anche il giornalista turco Ahmet Insel:

In Turchia, io ho vissuto la dittatura militare. E, negli anni '90, anche i cosiddetti ‘anni di piombo’, del tutto simili agli anni '70 italiani, durante i quali sono stati uccisi molti giornalisti. Oggi stiamo vivendo in uno ‘stato arbitrario’. Sinceramente, non saprei dire quale dei tre preferisco.

Insel racconta che in Turchia sono stati chiusi 158 media, tra cui 60 televisioni, 19 giornali, 29 case editrici e 5 agenzie di stampa. I giornalisti in carcere sono, ad oggi, 150. Ma la cosa più inquietante è che, nella maggior parte dei casi, non si sa il perché. Questo può avvenire perché la Turchia è uno “stato arbitrario”. Non una dittatura, che notoriamente censura ogni forma di libertà, ma è destinata ad essere rovesciata prima o poi. Non uno stato di diritto, che può anche non essere una democrazia, ma è dotato di leggi che arginano i tentativi di sopruso e di limitazione immotivata della libertà d'espressione. Uno stato arbitrario lascia l'illusione di vivere, lavorare, studiare e fare giornalismo in modo normale e libero, ma non si sa mai cosa potrà essere considerato illegale.

L'unico mezzo per combattere gli autoritarismi è l'indipendenza della giustizia

Insel continua la sua analisi rilevando che la tendenza all'autoritarismo esiste dappertutto e che tutti gli autoritarismi moderni hanno l'obiettivo principale di dominare la giustizia, perché così facendo si ottiene il controllo della società senza uccidere nessuno. Qui, sostiene, sta la differenza tra un autoritarismo ‘burlesco’, come quello di Berlusconi in Italia, dove la giustizia è riuscita a mantenere la propria indipendenza, e un autoritarismo dispotico, come quello turco, che sottomette completamente la giustizia e non lascia più la possibilità di usare mezzi pacifici per tornare alla democrazia. Oggi, dice Insel, la giustizia turca è completamente asservita al potere, e l'accusa di fare propaganda al terrorismo è una scusa per attuare la repressione — non solo nei confronti di chi viene arrestato, ma anche dei 1.500 giornalisti disoccupati, licenziati a causa delle pressioni fatte sugli editori dal presidente della repubblica, che decide arbitrariamente quali giornalisti ‘scomodi’ devono essere allontanati. Questo può avvenire perché, verso la fine degli anni '80, le redazioni dei giornali hanno eliminato qualsiasi forma di protezione sindacale per i giornalisti.

Giornalisti in pericolo. Illustrazione.

Giornalisti turchi in pericolo. Illustrazione di Gianluca Costantini per FDU Milano. Fonte: pagina Facebook del Festival dei Diritti Umani.

L'informazione, per essere di qualità, non dovrebbe essere militante. Ma lo stato di eccezionalità in cui si trova oggi la Turchia ha reso necessario fare giornalismo di mobilitazione, che si concentra sulla contestazione a discapito della pura informazione. Non è un buon giornalismo, riconosce Insel, ma non c'è scelta. Dal 2015, anno delle elezioni politiche, la Turchia è diventata un paese sempre più violento: attentati, scontri tra le forze dell'ordine e il PKK, e atti di violenza diffusa hanno causato la morte di più di 2.000 persone tra militari e civili. Tra i più bersagliati e vulnerabili ci sono i giornalisti locali, le cui vicissitudini non fanno notizia a livello nazionale né internazionale. Aggiunge Insel:

Mi si chiede come è possibile fare il giornalista in queste condizioni. Io non mi considero un giornalista. Sono più un cronista, una persona che va avanti. Mentre proseguo, mi cadono bombe accanto. Qualcuno muore, qualcuno viene arrestato, ma io vado avanti. Altre bombe, altri caduti, ma io continuo ad andare avanti. Sappiamo che un giorno toccherà a noi, ma fino a che non saremo noi a essere colpiti, avremo il potere di parlare anche per chi è caduto. Il diritto e il dovere di andare avanti.

Davvero i giornalisti “se la vanno a cercare”?

Beppe Giulietti, presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana, si scalda quando si parla delle responsabilità dei giornalisti rispetto ai pericoli che affrontano, e sottolinea come l'oscurità e il silenzio siano necessari al malaffare, che comprensibilmente detesta l'esposizione mediatica. È la tensione alla conoscenza che fa il giornalista (non il tesserino), e quando questa tensione lo conduce in situazioni rischiose, sono i colleghi che hanno l'opportunità di proteggerlo, come una sorta di ‘scorta mediatica’: se, per ogni giornalista minacciato per aver sollevato il velo su questioni scomode, ce ne fossero altri a continuare la sua opera per portarle sempre più allo scoperto, con un'altra inchiesta, un'altra telecamera, un altro microfono, i malavitosi saprebbero che più minacciano, più saranno sotto i riflettori di chi cerca la verità.

Rocchelli & Mironov + Genitori di Andrea

Sopra: Andrea Rocchelli e Andrej Mironov nell'illustrazione di Gianluca Costantini. Fonte: festivaldirittiumani.it – Sotto: I genitori di Andrea Rocchelli raccontano la loro lotta per giungere alla verità. Fonte: festivaldirittiumani.it

La storia di Andrea Rocchelli, raccontata al Festival dai suoi genitori, può forse farci da paradigma per comprendere molte storie purtroppo simili, come quelle di Giulio Regeni, di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, di Enzo Baldoni, di Raffaele Ciriello, di Antonio Russo.

Rocchelli era particolarmente interessato al processo di dissoluzione dell'esperimento sovietico e, dopo averlo seguito e documentato in zone come il Daghestan e la Cecenia, era finito in Ucraina, dove aveva raccontato i giorni dell’Euromaidan nel 2013.

Poco dopo il suo ritorno in Italia, era nuovamente ripartito, a sue spese, alla volta dell'Ucraina, con il collega russo Andrej Mironov. Coinvolti in una sparatoria per quello che sembrava un caso, il 24 maggio 2014 i due reporter sono rimasti uccisi. Ma grazie alla tenacia dei genitori e dei colleghi giornalisti di Rocchelli, e alla scoperta di alcune foto scattate dal reporter negli ultimi attimi di vita, la procura di Milano ha avviato una nuova istruttoria: nonostante una prima inchiesta (volutamente) sommaria svolta in Ucraina avesse confermato l'ipotesi dell'incidente, sembra invece che i giornalisti fossero il vero target dell'agguato.

L'intervento di Alessandra Ballerini, l'avvocatessa che segue il caso a fianco dei Sigg. Rocchelli, chiude la conferenza e prende avvio da queste parole:

Quando si tutelano i diritti umani, e la libertà d'espressione è uno dei principali diritti umani, lo si fa per se stessi in primo luogo. Se lo si fa attraverso gli altri, cioè tutelando i diritti degli altri, lo si fa comunque per rivendicare il proprio diritto. E questa è la magia dell'universalità dei diritti umani.

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