“Squadroni della morte nella Manila di Rodrigo Duterte”: Il reportage vincitore del Premio Ivan Bonfanti 2017

Piccolo fumatore filippino – Foto gentilmente concessa da Cecilia Attanasio Ghezzi.

Il 19 luglio 2008, a soli 37 anni, moriva il giornalista italiano e inviato di guerra Ivan Bonfanti, lasciando un vuoto improvviso tra i suoi colleghi e lettori. Bonfanti lavorava al quotidiano “Liberazione”, dirigeva il servizio Esteri e curava la pagina della Sinistra europea. Amante della cronaca internazionale, Bonfanti si era dedicato a numerosi reportage: da Gerusalemme, Gaza, Ramallah, Kabul, Romania, Macedonia e Egitto. Bonfanti coltivava la passione per il Medio Oriente e l’ambientalismo, ma soprattutto sognava un giornalismo libero da faziosità e ideologie.

Per continuare a tramandare i valori in cui Bonfanti credeva, Stampa Romana e l’Associazione Ivan Bonfanti hanno creato un premio giornalistico in sua memoria arrivato alla sua VIII edizione. Secondo il bando ufficiale, la competizione, aperta a giovani giornalisti emergenti e agli studenti delle scuole di giornalismo, vuole “premiare servizi giornalistici che abbiano raccontato (attraverso quotidiani, periodici, testate giornalistiche on-line) conflitti internazionali, processi di pace, sviluppo sostenibile, incontro tra i popoli, ambientalismo e la convivenza tra esseri umani e animali.”

Manifesti raffiguranti il presidente filippino Duterte per le strade di Manila – Foto gentilmente concessa da Cecilia Attanasio Ghezzi.

La vincitrice del Premio Ivan Bonfanti 2017 è Cecilia Attanasio Ghezzi autrice del reportage “Squadroni della morte nella Manila di Rodrigo Duterte”, pubblicato sul settimanale Pagina99 il 18 dicembre 2016. Già caporedattrice di China Files, agenzia di stampa specializzata in reportage e inchieste sulla Cina, Cecilia lavora da molti anni come freelance e corrispondente da Pechino per la Stampa, Internazionale, il Fatto Quotidiano, Linkiesta , Lettera 43 e altri quotidiani nazionali. Da poco è tornata a Milano, fa parte della redazione del settimanale Pagina 99.

La premiazione ufficiale si terrà il 10 giugno presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma.

Pubblichiamo di seguito un estratto del reportage e le foto originali dell'autrice che ci ha gentilmente concesso, scattate durante il suo difficile viaggio nelle Filippine, tra lacrime e cadaveri.

Le bare in mezzo ai vicoli. Nei sovrappopolati slum di Manila è questa la firma della nuova amministrazione di Rodrigo Duterte, il nuovo presidente, “il castigatore”, quello che appare sempre nell’atto di sferrare un destro. Sono i segni visibili della sua tanto decantata «guerra alla droga», oltre 5.900 morti da quando si è insediato alla presidenza delle Filippine il 30 giugno scorso. Una media di 38 vittime al giorno che non ha nulla da invidiare ai veri e propri campi di battaglia dell’epoca contemporanea. Solo che in questo caso è lo Stato, per bocca di un presidente eletto a furor di popolo, a legittimare il massacro.

«È la legge del mio Paese», ha spiegato ai microfoni di Al Jazeera neppure un mese fa. «C’è un poliziotto e c’è un gangster. Il primo è armato con un M16, un fucile da assalto, il secondo con una pistola. Quando si incontrano, sparano. L’M16 del poliziotto con una raffica uccide mille persone. Lui non ha alcuna responsabilità». Per paura di finire «a ingrassare i pesci della baia di Manila», in soli cinque mesi oltre 900 mila persone si sono «arrese», autodenunciandosi alle forze dell’ordine e riempiendo carceri e centri di riabilitazione oltre la loro capienza massima.

Attenzione: l'immagine seguente è molto cruda e potrebbe urtare la vostra sensibilità.

“Scena del crimine, non oltrepassare”, cadavere di presunto drug addicted nelle strade di Manila – Foto gentilmente concessa da Cecilia Attanasio Ghezzi.

La microcriminalità è diminuita del 30 per cento e l’opinione pubblica si è polarizzata. Il presidente Duterte, l’uomo forte al comando, chiede una scelta di campo senza sfumature: le discussioni sui metodi non fanno altro che intralciare i suoi piani, o si è con lui o si è contro di lui. «Mi piaceva Duterte. Mi piaceva perché parlava in maniera diretta e perché non girava attorno ai problemi. Ho persino organizzato la sua campagna elettorale nel quartiere, ma questo è un prezzo troppo alto da pagare». Maria è una vedova di cinquant’anni. Aveva cinque figli, gliene sono rimasti solo due. Danilo e Aljun sono morti lo scorso settembre, a distanza di sette giorni. Avevano 34 e 23 anni. Lavoravano al porto, quando c’era lavoro.

Scaricavano merci per meno di tre euro al giorno. Entrambi, prima di essere ammazzati, si erano “arresi” confessando di aver avuto a che fare con la droga. Pensavano così di salvarsi dai sicari in motocicletta. Sono stati ritrovati sotto un ponte, i corpi senza vita scaricati in una notte qualsiasi sul bordo di una strada qualunque. La testa avvolta dallo scotch da pacchi e un cartello scritto a mano: «non imitatemi». Una modalità che si ripete troppo spesso nei bassi di Manila. Maria da allora ha paura…

Il reportage continua su Pagina99.

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