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I nomadi mongoli dicono addio alla pastorizia e danno il benvenuto allo smog

Categorie: Asia centrale & Caucaso, Mongolia, Ambiente, Citizen Media, Migrazioni
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La città di Ulaanbaatar coperta da una coltre di smog nel 2010. Foto scattata dall'utente di Flickr Einar Fredriksen. CC BY-SA 2.0

Questo articolo, scritto da Anne Bailey [2] [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione], è stato originariamente pubblicato su PRI.org [3] il 10 luglio 2017. Viene qui ripubblicato grazie a una partnership tra PRI e Global Voices.

Un bambino che piange per richiamare l'attenzione della madre che sta preparando il tè e si sta occupando della stufa nello ger o yurt di famiglia. L'aria racchiusa dalle pareti di tela spessa che odora di fumo e formaggio di latte cagliato. Due ragazzi più grandi che giocano all'esterno.

È una scena tipica della Mongolia, vecchia di secoli ma alla quale si potrebbe assistere anche oggi in una qualsiasi delle vaste pianure del paese, dove le famiglie di pastori nomadi seguono le loro mandrie da chissà quante generazioni.

Ora, in Mongolia tutto sta però cambiando velocemente. Di recente questa famiglia nomade ha piantato la propria casa mobile in un luogo dove non avrebbe mai pensato di andare a vivere, ossia in mezzo a un irregolare mosaico di strade sterrate, recinti improvvisati e centinaia di yurt nell'affollata capitale di Ulaanbaatar.

Qualche anno fa la famiglia ha abbandonato la pastorizia e si è trasferita in città, dopo aver perso gran parte della propria mandria durante un rigido inverno o “dzud” come viene chiamato in Mongolia.

E non sono stati gli unici.

“Tante famiglie nomadi hanno perso le loro mandrie” durante quell'inverno, dice Jargalsaikhan Erdene-Bayar, il padre della famiglia. “Così hanno iniziato a trasferirsi qui. E ne arrivano ancora.”

I dzud sono sempre stati parte della vita in Mongolia, ma con il cambiamento climatico, sembrano essere più frequenti. E ciò sta causando  una serie di problemi a cascata: tradizioni che si perdono, persone sfollate, sovraffollamento… e lo smog.

Basta alzare la testa in un giorno invernale per vederlo.

“C'è questa cupola sopra la città, questa cupola grigia”, dice l'attivista locale Tuguldur Chuluunbaatar.

In inverno, molti dei nuovi abitanti della città bruciano tutto ciò che hanno per riscaldarsi.

“Bruciano per lo più carbone”, dice Chuluunbaatar, “anche se alcuni bruciano un po’ di tutto, come pneumatici, plastica e altri oggetti”.

Munkh-erdene, di otto mesi, siede accanto alla stufa tradizionale della sua famiglia nel suo ger, o yurt, a Ulaanbaatar. Le stufe sono pensate per bruciare legna o letame, ma molte famiglie le usano per bruciare il carbone, causando un picco di inquinamento atmosferico in inverno. Crediti: Anne Bailey.

Questi sono combustibili molto inquinanti, che lo diventano ancora di più quando vengono bruciati in stufe tradizionali inefficienti che servirebbero solo per il legname e lo sterco. Il fumo di tutto ciò che viene bruciato, insieme a quello delle auto, delle centrali elettriche e degli stabilimenti industriali rimane intrappolato sotto l'aria più fredda presente sopra le montagne vicine. Insieme, contribuiscono a rendere pessima la qualità dell'aria di questa città di 1,4 milioni di abitanti, che a volte è più irrespirabile di quella di metropoli notoriamente inquinate come Pechino e Mumbai.

D'inverno, solo la famiglia di Erdene-Bayar brucia tre tonnellate di carbone.

Erdene-Bayar sa che riscaldare la casa in questo modo è nocivo per la salute della sua famiglia, ma non cos’altro fare.

“Bruciare il carbone è l'unica opzione”, dice Erdene-Bayar. “In Mongolia non c'è gas naturale e l'elettricità è cara”.

Negli ultimi anni, il governo qui ha speso milioni di dollari per combattere l'inquinamento atmosferico e ha intenzione di spenderne ancora di più per costruire complessi di appartamenti a più piani con impianti di riscaldamento centralizzati più efficienti per le famiglie che ora vivono negli yurt. Ma i lavori procedono lentamente e molti dei migranti non vogliono abbandonare le loro abitazioni tradizionali per delle case di cemento. Molti sperano ancora di tornare al loro vecchio stile di vita, anche se il loro potrebbe essere un sogno irrealizzabile.

“La desertificazione è ormai una realtà”, dice Batjargal Zamba, meteorologo e consulente del Ministero dell'Ambiente mongolo [4] [mn]. “Il  riscaldamento globale sta rendendo sempre più arida la Mongolia”.

Ciò significa che ci saranno meno pascoli per le mandrie e che, probabilmente, ci saranno sempre meno le famiglie nomadi e sempre più persone che si trasferiranno a Ulaanbaatar, rendendo la situazione della città sempre più problematica.

Gli attivisti locali come Chuluunbaatar sanno che non possono fare molto per risolvere questi grossi problemi, ma si stanno comunque battendo per cercare di cambiare le cose. Chuluunbaatar fa parte di un progetto comunitario [5] [en] che mappa le condizioni ambientali e sociali nel distretto della città costituito da ger. Vengono raccolte tutte le informazioni possibili – dalla distanza media a una fonte d’approvvigionamento d’acqua alla posizione delle discariche illegali e all’inquinamento atmosferico, perché possano essere usate per organizzare manifestazioni di protesta.

“È difficile che il governo ascolti la voce di una persona sola”, dice Chuluunbaatar. “ma, insieme, come comunità riusciremo a farci sentire”.

Le cose stanno però lentamente cambiando. Il governo ha varato una serie di agevolazioni fiscali per le piccole aziende in modo che possano iniziare a produrre stufe più efficienti e ha creato una serie di incentivi per incoraggiare i residenti a usare un’energia più pulita per riscaldarsi.

Il processo è tuttavia lento e Erdene-Bayar, un ex pastore nomade, ci dice che per ora non ha percepito alcun miglioramento.

“L'inquinamento atmosferico è un grosso problema”, dice. “Per noi è molto pericoloso vivere qui”.

Contro ogni previsione,  Erdene-Bayar e la sua famiglia sognano ancora di tornare in campagna, dove l'aria è pulita.

“Voglio continuare a vivere come un nomade”, dice, “amo la vita del pastore nomade”.

Jargalsaikhan Erdene-Bayar tiene in braccio Munkh-erdene, il figlio di otto mesi, dentro lo yer della sua famiglia a Ulaanbaatar. Erdene-Bayar ha allevato mandrie in campagna fino a quando un rigido inverno non ha decimato la maggior parte dei suoi animali, obbligandolo a cerare lavoro in città. Crediti: Anne Bailey