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Il principale scalo della tratta degli schiavi nelle Americhe oggi è patrimonio dell'umanità

Categorie: Africa sub-sahariana, America Latina, Brasile, Citizen Media, Diritti umani, Etnia, Storia

Cais do Valongo, il sito che nel 1800 veniva usato come scalo principale dai trafficanti di schiavi nelle Americhe | Foto: Tomaz Silva/Agência Brasil/CC BY-NC-SA 2.0 [1]

I resti di quello che una volta era il più grande scalo usato per la tratta degli schiavi nelle Americhe sono riemersi nel 2011, dopo essere rimasti sepolti per quasi 200 anni, in occasione dell’avvio  [2][pt, come i link seguenti salvo altra indicazione] dei lavori di costruzione nell'area del porto di Rio de Janeiro, in preparazione dei Giochi Olimpici che si sarebbero tenuti cinque anni più tardi.

Nel luglio 2017, l'UNESCO ha dichiarato l'area patrimonio culturale dell'umanità con l'intento di trasformare le pietre rimaste sepolte per tanto tempo in un luogo della memoria.

Questo riconoscimento da parte del ramo educativo, scientifico e culturale dell'ONU obbliga il Brasile a far riaffiorare un periodo della sua storia con cui il paese fatica ancora a riconciliarsi. Il Brasile è stato l'ultimo paese nel continente americano ad abolire la schiavitù nel 1888. La tratta degli schiavi però era già stata dichiarata illegale nel 1843 e questo fu il motivo per cui Valongo perse il suo prestigio. Stando al database storico online Slave Voyages [3] [en]:

Brazil was the center of the slave trade carried on under the Portuguese flag, both before and after Brazilian independence, in 1822, and Portugal was by far the largest of the national carriers. Brazil dominated the slave trade in the sense that Rio de Janeiro and Bahia sent out more more slaving voyages than any port in Europe […] Over nearly three centuries between 1560 and 1850, Brazil was consistently the largest destination for slaves in the Americas.

Il Brasile era al centro della tratta degli schiavi gestita dai portoghesi, sia prima che dopo l'indipendenza del Brasile nel 1822, e il Portogallo era in assoluto il principale trafficante di schiavi. Il Brasile dominava il traffico degli schiavi nel senso che da Rio De Janeiro e Bahia partivano più navi schiaviste che da qualunque altro porto europeo […] Per oltre tre secoli, tra il 1560 e il 1850, il Brasile continuò a essere la più importante destinazione degli schiavi del continente americano.

Lo scalo di Valongo fu creato nel 1811, tre anni dopo l'arrivo della famiglia reale portoghese in fuga dall'armata napoleonica in Europa, e diventò rapidamente la principale destinazione delle navi che trasportavano le persone ridotte in schiavitù nelle Americhe. La storica Lilian Moritz Schwarcz, una ricercatrice dell'Università di San Paolo che partecipa anche al programma di ricerca globale della Princeton University negli Stati Uniti, spiega [4] che il molo era situato a breve distanza dal palazzo reale e che durante le loro passeggiate, i sovrani si fermavano spesso a osservare i trafficanti che “preparavano” la loro merce, separando famiglie e strofinando olio di balena sui corpi degli africani ridotti in schiavitù per coprire le loro ferite:

O Brasil recebeu mais de 4 milhões de africanos, durante os (quase) quatro séculos em que foi vigente o regime escravocrata no país. Tal número equivale a um pouco menos do que a metade da população que deixou seu continente de origem, forçadamente, e àqueles que lograram chegar vivos nas Américas, depois de uma viagem repleta de contrariedades. Desse número absoluto, aproximadamente 60% aportaram no Rio de Janeiro, e cerca de um milhão deles entraram no território pelo Cais do Valongo.

In Brasile sono arrivati oltre 4 milioni di africani durante i quasi quattro secoli in cui nel paese vigeva la schiavitù. Questa cifra è l'equivalente di poco meno della metà di [tutti gli africani] che furono costretti ad abbandonare il loro continente di origine e riuscirono ad arrivare vivi nelle Americhe, dopo un lungo viaggio pieno di avversità. Il 60% di questa cifra assoluta approdò a Rio de Janeiro e circa 1 milione di persone entrò nel paese tramite lo scalo di Valongo.

Ciò significa che in 32 anni di operatività, Valongo era diventato non solo il porto schiavistico più trafficato ma anche quello in cui di fatto approdò un quarto di tutti gli africani ridotti in schiavitù entrati in Brasile nei secoli in cui questa pratica era ammessa. Quando l'Istituto del patrimonio storico e artistico nazionale (IPHAN) ha candidato il sito per il riconoscimento da parte dell'UNESCO, l'allora presidente, Kátia Bogéa, ha puntualizzato [2] che Valongo è “l'unico [sito] che rappresenta i milioni di africani che sono stati ridotti in schiavitù e che hanno contribuito, con il loro lavoro, a trasformare il Brasile in una nazione, dando vita alla più grande popolazione di colore vivente al di fuori dell'Africa”.

Come sottolinea Schwarcz nel suo recente articolo [4] sul riconoscimento dell'importanza del sito, nel caso del Brasile il vedere riconosciuto questo sito storico come patrimonio UNESCO è molto di più di una semplice questione di memoria. Per il Brasile, significa “chiudere la porta all'oblio”.

Não se trata de condenar essas populações a seu passado, até porque ninguém foi escravo de origem e nascença. Mas sim de lembrar e elevar essa África que vive em nós. Conforme define, lindamente, Alberto da Costa e Silva, nosso maior africanista: “O Brasil é um país extraordinariamente africanizado. E só a quem não conhece a África pode escapar o quanto há de africano nos gestos, nas maneiras de ser e de viver e no sentimento estético do brasileiro. (…) Com ou sem remorsos, a escravidão é o processo mais longo e mais importante de nossa história.

Non significa condannare queste popolazioni a restare ancorate al loro passato, soprattutto perché nessuno di loro in origine era uno schiavo, ma piuttosto ricordare e sublimare l'Africa che vive in tutti i brasiliani. Per usare la bellissima definizione di Alberto da Costa e Silva, il più importante africanista brasiliano, “Il Brasile è uno straordinario paese ‘africanizzato’. A chi conosce l'Africa non può sfuggire la similitudine dei nostri gesti, del nostro modo di vivere, del nostro senso estetico […] Con o senza rimorso, la schiavitù è il più lungo e importante processo della nostra storia..”