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La scienza si sta evolvendo ma il pregiudizio sull'HIV rimane, afferma un medico brasiliano

Categorie: America Latina, Brasile, Citizen Media, Diritti gay (LGBT), Diritti umani, Salute, Scienza

Secondo l'attivista e ricercatore in sanità pubblica Carué Contreiras, è necessario che le campagne di sensibilizzazione non si fermino più alla prevenzione di HIV/AIDS, ma forniscano ulteriori informazioni e chiarimenti. Foto: Sham Hardy/Flickr, CC-BY-SA 2.0)

Da una prospettiva scientifica, la risposta all'epidemia di AIDS può essere considerata un successo. Nell'arco di 35 anni, quello che era un flagello globale è oggi un problema più facilmente monitorabile.

I nuovi medicinali disponibili favoriscono il miglioramento della terapia e la diminuzione degli effetti collaterali. Grazie a questi presidi, gli individui che hanno contratto il virus dell'HIV non presentano i sintomi di AIDS. Se l'infezione è opportunamente monitorata (se, in termini tecnici, il paziente non presenta “livelli rilevabili di viremia”), essa non è trasmessa tramite rapporti sessuali. La durata media della vita di un individuo con HIV è oggi equiparabile a quella di un soggetto sano.

Benché questi dati siano incoraggianti, bisogna considerare che ancora oggi gli individui che convivono con il virus dell'HIV o la sindrome di AIDS (spesso identificati come PLWHA, acronimo inglese per entrambe), lottano ancora contro una forte stigmatizzazione sociale. Tale forma di discriminazione non consente agli stessi individui di godere appieno dei propri diritti, rendendo molto difficile l'instaurazione di relazioni affettive e limitando la possibilità di difendersi pubblicamente. Il fenomeno porta la persona coinvolta ad isolarsi dal mondo esterno ed è, in alcuni casi, causa di morte. People Living with HIV Stigma Index [1] [en] cioè l'Indice delle persone che convivono col pregiudizio sull'HIV, è un progetto di ricerca finanziato dal programma delle Nazioni Unite per AIDS/HIV, che ha rilevato durante lo scorso anno il dato di 20% degli individui affetti da queste patologie che hanno pensato al suicidio.

Il medico e attivista brasiliano Carué Contreiras, in quanto membro del National Network of People Living with HIV / AIDS (RNP +) [2] – Rete Nazionale di Persone che Vivono con HIV / AIDS (RNP +), un progetto nazionale mirato a divulgare informazioni su queste condizioni, svolge la sua professione basandola su un duplice approccio, quello scientifico e quello inerente i diritti umani. In una dichiarazione rilasciata a Global Voices, Contreiras ha affermato: “La scienza ha fatto passi da gigante, ma la società nutre ancora molti pregiudizi nei confronti delle persone che, come me, convivono con HIV/AIDS. In termini essenzialistici potremmo parlare di ‘sierofobia’, per dare una definizione a questo atteggiamento di diffidenza”.

Carué Contreiras, Foto: archivio personale, pubblicazione autorizzata.

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità [3], lo scorso anno, 36 milioni di individui nel mondo hanno contratto il virus dell'HIV. Si stima che lo 0,8% dei soggetti di età compresa tra i 15 e i 49 anni siano portatori del virus. In Sudafrica gli individui che convivono con l'HIV costituiscono il 4,2% della popolazione, mentre negli Stati Uniti e in Sud America il dato si attesta allo 0,4%, una percentuale al di sotto della media mondiale.

Il sistema sanitario brasiliano è stato il primo a disporre la somministrazione gratuita di farmaci anti HIV. Dalla fine degli anni '90, il dato relativo alle nuove infezioni è rimasto immutato e da allora più della metà degli individui con HIV sono stati sottoposti a una terapia.

Il grande risultato ottenuto, però, non scoraggia il pregiudizio che l'opinione pubblica brasiliana riserva agli individui che convivono con HIV/AIDS. “La libera espressione di questi soggetti è fortemente limitata dai mezzi di comunicazione che, pensando di sensibilizzare alla prevenzione, tendono a presentarli come vittime o come esempi da non emulare.”

Di seguito l'intervista integrale.

Perché, nonostante la disponibilità di terapie che consentono di convivere con l'HIV, si parla ancora poco del virus?

 Il pregiudizio nasce da differenti supposizioni, alcune delle quali, ad esempio la paura della trasmissione del virus dal semplice contatto, sono relativamente semplici da smentire. Vi sono però fenomeni sociali maggiormente radicati, come la sierofobia, che nasce dal concetto di oppressione sessuale e sancisce il nostro fallimento morale agli occhi degli altri. La sierofobia si presenta sotto varie forme e interagisce spesso con misoginia, sessismo, razzismo, transfobia  e altri atteggiamenti di avversione nei confronti di specifici gruppi. In alcune aree geografiche, l'alto tasso di mortalità per AIDS non fa altro che fomentare la sierofobia.

Molte delle campagne di sensibilizzazione lanciate da ONG e governi puntano tutto sull'importanza della prevenzione. Secondo alcuni attivisti, la prevenzione non è il solo fattore attraverso il quale si può sconfiggere l'AIDS. Può spiegare meglio questa posizione?

 Una delle principali cause del fallimento delle campagne di educazione alla salute è il loro unico focus sulla prevenzione; una scelta di questo tipo tende di fatto a isolare gli individui che hanno contratto il virus dell'HIV. La prevenzione costituisce un elemento fondamentale per accrescere la consapevolezza della sessualità di ognuno, ma quando si parla di HIV non si può non pensare ai soggetti che convivono già con il virus. Non si tratta di un problema passeggero; contrarre l'HIV significa gestire una condizione permanente che spesso priva l'individuo dei propri diritti.

Strutturare una campagna di educazione alla salute che si sofferma solo sui metodi di prevenzione e presenta i soggetti con HIV/AIDS come meri portatori del virus, tenderà sempre a marcare il concetto di diversità e fomenterà la sierofobia. Se invece si parlasse concretamente di sierofobia, mantenendo un atteggiamento neutrale riguardo la tematica dello stato sierologico, si potrebbe rompere il silenzio caduto su questa problematica. Il silenzio alimenta la disinformazione anche tra coloro che non hanno contratto l'HIV, provocando atteggiamenti di rifiuto e paura che impediscono l'affettività e la convivenza sociale. Tale forma di stigmatizzazione, inoltre, rende più difficile la circolazione di informazioni sui modi di prevenire il contagio dell'HIV.

Che ruolo svolgono i mezzi di comunicazione?

I mezzi di comunicazione tendono a estremizzare l'entusiasmo dei grandi risultati ottenuti nel mondo scientifico, diffondendo però un'immagine rassegnata e vittimista degli individui e delle nazioni fortemente colpite dal problema. Il progresso della medicina è uno degli elementi maggiormente in vista quando si parla di HIV. I servizi mandati in onda durante i telegiornali sono sempre accompagnati dal commento professionale di un medico. Contrariamente a quanto accade con la malaria e altre malattie diffuse nei Paesi in via di sviluppo, molte iniziative finanziano progetti di ricerca e di prevenzione dell'HIV che potrebbero produrre risultati decisivi.

Nonostante la ricerca scientifica sia fondamentale, non bisogna trascurare le conseguenze che HIV/AIDS comportano nella sfera sociale dei soggetti che ne sono affetti. Questo ambito, fortemente legato ai diritti degli individui, è la parte meno visibile del problema. Agendo con l'intento di promuovere la prevenzione, i media tendono a limitare l'espressione delle persone con HIV/AIDS, presentandole come vittime o modelli da non imitare. Quindi, paradossalmente, questa forma di sostegno fomenta l'atteggiamento sierofobico.

Nei primi periodi di diffusione dell'AIDS si utilizzava con frequenza l'espressione “gruppi ad alto rischio”; oggi si preferisce parlare di “popolazioni chiave”. Perché questo cambiamento è rilevante?

L'evoluzione degli elementi linguistici impiegati per spiegare perché alcuni gruppi di indvidui sono maggiormente colpiti dal virus rispetto ad altri aiuta a conoscere l'HIV non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello sociale e dei diritti.

L'espressione “gruppi ad alto rischio”, usata nel periodo in cui la comunità LGBT non godeva di nessun diritto, considera l'HIV la diretta conseguenza di comportamenti devianti tipici di alcuni gruppi, giustificando l'emarginazione di questi ultimi; per questo motivo era allora considerato necessario negare i diritti dei “gruppi a rischio” per garantire il benessere della società.

Successiva fu la definizione di “comportamento a rischio”. Essa si rivelò più adeguata della precendente perché funzionale a diffondere il concetto di rischio infettivo per la popolazione, ma non ancora ideale poiché esasperava la responsabilità individuale. L'impiego di questa espressione tendeva a far supporre che gli individui con HIV o affetti da AIDS fossero soggetti poco raccomandabili. Si parla anche in questo caso di sierofobia; “comportamento a rischio” genera stereotipi che non prendono in considerazione fattori esterni come il pregiudizio e l'isolamento. Inoltre, l'uso di quest'etichetta sollevava i governi da specifiche responsabilità.

L'introduzione dei termini “vulnerabilità” e “popolazioni vulnerabili” ha segnato un cambiamento nella storia sociale dell'HIV. I nuovi indicatori, infatti, fanno riferimento al contesto e alle condizioni di vita di un individuo e verificano come la violazione dei diritti, l'inequa distribuzione del potere e dell'accesso ai servizi possano limitare l'abilità di controllare il rischio.

“Popolazioni chiave” è una combinazione lingusitica più recente; essa conserva lo stesso significato di “popolazioni vulnerabili”, ma pone in evidenza la necessità di intraprendere azioni sociali per attivare iniziative di lotta all'AIDS.

Questa suddivisione in categorie è diffusa?

No. Queste categorie sono associate a posizioni politiche; sfortunatamente, quindi, non possiamo affermare di aver superato le vecchie definizioni che, a seconda delle scelte degli interlocutori, persistono nelle discussioni attuali sull'HIV.

A dimostrazione di ciò, si possono citare le diverse interpretazioni fornite riguardo il picco di nuove infezioni registrate tra i giovani brasiliani. Tale informazione è una generalizzazione che nasconde il fatto che la gran parte di essi appartenga alla comunità LGBT. Il cliché proposto dai media per commentare questo fenomeno è che l'atteggiamento “irresponsabile” dei giovani potrebbe derivare dal fatto che “non abbiano visto morire i loro idoli”. La responsabilità è dell'individuo, tutto dipende dalla scelta del ragazzo; da qui si può facilmente concludere che la categoria alla quale si fa riferimento è quella del “comportamento a rischio”.

Tuttavia, un'analisi più approfondita del criterio di “vulnerabilità” potrebbe rivelare che la battaglia per il diritto alla sessualità degli adolescenti LGBT e di tutti i giovani si combatte ancora ai margini della società, poiché non è mai stata supportata da politiche sociali o da campagne di informazione.

È possibile fornire un ulteriore esempio guardando agli ambiti d'uso dell'espressione “popolazioni chiave”; essa è spesso utilizzata dalle autorità in tutto il mondo, ma sono in pochi a riflettere sull'importanza del coinvolgimento della società civile nella lotta all'HIV/AIDS. È facile comprendere come, in tali condizioni, l'espressione perda di significato.

Non è da tralasciare il fatto che anche in caso di riferimento a una specifica categoria con l'uso di termini appropriati, la teoria sociale dell'HIV fa risaltare discriminazioni diffuse anche nel mondo accademico. A titolo esemplificativo è possibile citare il modo in cui i ricercatori interpretano la profonda disomogeneità tra la popolazione brasiliana bianca e non, in termini di diffusione di AIDS. In una nazione fondata sul mito della democrazia razziale, i contributi degli accademici di colore sono spesso sovrastati da istituzioni accademiche composte soprattutto da ricercatori bianchi. Contrariamente agli Stati Uniti, in Brasile il tema della teoria razziale in ambito sociale in riferimento all'HIV è ancora rimasto invariato.

Questi esempi costituiscono la prova del fatto che non sia solo necessario parlare di HIV, ma che sia fondamentale anche considerare il modo in cui se ne parla, per comprendere se ciò che si dice al riguardo tenda ad abbattere o ad alimentare il pregiudizio.