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‘Vogliamo che il mondo sappia': attivisti che raccontano l'occupazione nel Sahara Occidentale affrontano minacce legali

Categorie: Medio Oriente & Nord Africa, Sahara Occidentale, Censorship, Citizen Media, Diritti umani, Guerra & conflitti, Libertà d'espressione, Media & Giornalismi, Advox

Una folla che si aggrega ad una manifestazione nella città di Laayune viene caricata dalle forze di polizia marocchine. La foto è stata scattata da Equipe Media ad aprile 2013.

Nei gruppi per i diritti umani e per la libertà di espressione, il Marocco viene spesso descritto come terreno relativamente favorevole alla libertà mediatica  [1][en, come i link seguenti, salvo diverse indicazione], paragonato ad altri regimi oppressivi e dittatoriali nelle vicinanze come per esempio l’Egitto e la Mauritania.

Queste dichiarazioni, che sono di per sé soggettive, tuttavia non si estendono ai territori del Sahara Occidentale.

In un ambiente militarizzato con controlli agressivi contro i media e le attività di reportage dei cittadini, sono poche le storie che dal Sahara Occidentale raggiungono un pubblico che vada oltre la regione. Giornalisti e attivisti locali che raccontano l’occupazione e gli abusi del Marocco, affrontano ostacoli legali e rischiano prolungate condanne di detenzione per poter far sentire la propria voce.

Un gruppo che si è ritrovato in questa situazione è Equipe Media [2] [ar], un gruppo di documentazione video e per i diritti umani, che principalmente si occupa degli abusi di diritti commessi da parte delle forze marocchine nel territorio.

Insieme ad una casa di produzione cinematografica svedese [3], il gruppo mediatico sahrawi ha recentemente rilasciato il suo primo documentario, 3 Stolen Cameras [4] [it] (Tre telecamere rubate), che parla della lotta e della fatica del gruppo nel documentare e raccontare gli abusi marocchini nel Sahara Occidentale.

“La nostra missione è quella di insistere sul fatto che siamo pacifici”, afferma Ahmed Ettanji, co-fondatore di Equipe Media. “Stiamo facendo campagne per la nostra causa in maniera pacifica e vogliamo che il mondo lo sappia.”

Molti giornalisti sahrawi che hanno lavorato per Equipe Media sono attualmente in prigione a causa delle loro attività lavorative, tra cui la realizzazione della copertura video sul movimento di protesta Gdeim Izik del 2010.

Il Sahara Occidentale: Un territorio molto discusso

Il conflitto nel Sahara Occidentale iniziò nel 1975 quando la potenza coloniale di allora, la Spagna, si ritirò dal territorio scarsamente abitato e si unì alle forze di movimento dei paesi vicini Mauritania e Marocco, che volevano prenderne il controllo. Mentre la Mauritania si ritirò dal Sahara Occidentale, le forze marocchine controllano fino ad adesso quello che a volte viene definita come “l’ultima colonia dell’Africa.”

Per 16 anni il gruppo di ribelli noto come Fronte Polisario [5] [it] combattè una guerriglia per l’indipendenza dal Marocco, fino a quando un cessate il fuoco dell’ONU divenne effettivo nel 1991. L’ONU riconosce il Fronte Polisario come rappresentante legittimo del popolo Sahrawi, un gruppo etnico misto che vive principalmente nel Sahara Occidentale e in Mauritania.

Le proteste di Gdeim Izik 

Verso la fine del 2010, giusto poche settimane prima lo scoppio delle rivolte arabe nella regione, il Sahara Occidentale visse una protesta civile massiccia e pacifica contro l’occupazione. La rivolta divenne nota come Gdeim Izik [6], nome dell’area del deserto dove ebbe luogo la protesta.

Centinaia di sahrawi abbandonarono le proprie case per unirsi a quello che poi divenne un’enorme città di tende autogovernata, occupando il territorio per circa un mese prima di essere violentemente cacciati [7] dalle forze marocchine, che in seguito bruciarono la città di tende.

Nonostante non sia molto conosciuto nel mondo, Gdeim Izik è un’ importante pietra miliare nella storia moderna del Sahara Occidentale e che ha ringiovanito il movimento civile di indipendenza.

Dopo l’evacuazione di Gdeim Izik nacquero delle sommosse che portarono poi a morti e feriti per le quali una parte accusa l’altra. La versione ufficiale delle autorità marocchine è quella che due manifestanti e 11 membri della polizia e delle forze di sicurezza sono stati uccisi in servizio. Altre fonti danno un numero e identificazioni diverse.

Un reportage di Sahara Docs [8] fa luce sulle conseguenze dell’evento per i manifestanti:

[The eviction of Gdeim Izik] caused for hundreds of victims among protesters, and some deaths among Moroccan ranks; eleven of them according to Moroccan sources. Some died on the field, while some others did so in hospitals, but as a consequence of their wounds.

[Lo sfratto di Gdeim Izik] causò centinaia di vittime tra i manifestanti e alcune morti tra gli ufficiali marocchini; undici secondo le fonti marocchine. Alcuni morirono sul campo, altri negli ospedali ma come conseguenza delle ferite.

Equipe Media ha fatto sì che la propria missione sia quella di documentare il movimento, dato che erano poche le persone a farlo. Insieme a un piccolo gruppo di attivisti media, stanno pagando un prezzo pesante come risultato.

Quattro attivisti media — Hassana Alia [9], Bachir El Khadaa [10], Hassan El Dah [11], e Abdullahi Lakfawani [12] — affiliati ad Equipe Media e simili reti di giornalismo partecipativo, fanno parte di un gruppo di 25 attivisti sahrawi che sono stati processati per il loro ruolo durante il movimento di protesta di Gdeim Izik.

Lakfawani, arrestato il 12 novembre 2010, fu condannato all’ergastolo con l’accusa di “appartenenza a un gruppo criminale” e “violenza intenzionale contro un membro delle forze di sicurezza causandone la morte”.

“Gruppo criminale” è una terminologia comune usata dalle autorità marocchine per descrivere gruppi attivisti nella regione.

El Khaadaa e El Dah furono arrestati in una caffetteria a Laayune, circa un mese dopo lo smantellamento delle proteste del campo. Mentre El Khadaa venne condannato a venti anni di carcere per “far parte di un accordo criminale” e “coinvolgimento in azioni di violenza contro un membro delle forze di sicurezza causandone intenzionalmente la morte”, El Dah fu condannato a trenta anni per “appartenenza a una gang criminale e “coinvolgimento in azioni di violenza contro un membro delle forze di sicurezza causandone intenzionalmente la morte”. A parte contribuire per Equipe Media, El Dah è stato reporter per la tv di stato ufficiale di Polisario (RASD TV).

Hassana Alia membro Equipe Media è stato accusato e condannato [13] in absentia nel 2013, per accuse non specificate e condannato all’ergastolo. Attualmente è in esilio in Spagna dove gli fu garantito l’asilo prima del processo. Alia non apparì tra gli altri imputati nel nuovo processo del 2017.

Commentando i casi, Ettanji ha affermato a Global Voices:

When our members are put on trial we are never charged with violating the press code, but always some made-up accusations of us assaulting the police or something like that. Foreign journalists are kicked out, Moroccan journalists know the law and keep their mouths shut and us Sahrawis are treated in the worst way possible.

Quando i nostri membri vengono messi sotto processo non veniamo mai accusati di violazione del codice di condotta giornalistico, ma di accuse inventate in cui attacchiamo la polizia o qualcosa del genere. I giornalisti stranieri vengono cacciati, quelli marocchini invece conoscono la legge e chiudono la bocca mentre noi sahrawi veniamo trattati nel peggior modo possibile.

Il processo Gdeim Izik 

Le autorità marocchine accusano 25 attivisti del movimento di protesta di Gdeim Izik di aver commesso atti di violenza durante gli scontri sorti, quando le forze di sicurezza marocchine smantellarono la protesta l’8 novembre 2010.

Secondo fonti ufficiali, undici membri delle forze di sicurezza marocchine e due sahrawi persero la vita durante gli scontri. Tuttavia, Human Rights Watch, [14] Amnesty International [15] e osservatori [16]internazionali affermano che il processo non è equo dato che le confessioni sono forzate e ottenute sotto tortura. Le autorità marocchine non hanno prestato attenzione alle richieste dei gruppi di diritti umani di far chiarezza sulle accuse di tortura. Nel marzo 2013, dopo più di due anni di detenzione preprocessuale, una corte militare condannò gli attivisti a periodi di detenzione che vanno dai due anni all’ergastolo.

Nel 2016, dopo che il Marocco cambiò la sua legge di giustizia militare per porre fine ai processi militari verso i civili, la corte di cassazione ordinò un nuovo processo davanti a una corte civile. Il 19 luglio 2017, una corte d’appello emise una sentenza che confermò [17] la maggior parte di quelle precedentemente pronunciate dalla corte militare di Rabat.

Un altro collaboratore di Equipe Media attualmente anche lui in prigione, ma non per le proteste di Gdeim Izik, è Mohammed El Bambari [18], che sta scontando una pena di sei anni a causa della sua copertura delle proteste che divennero poi violente nella città di Dakhla, nel settembre 2011.

Il governo marocchino lo ha accusato di aver preso parte agli atti di violenza tra cui “violenza contro pubblico ufficiale”, “blocco di una strada pubblica” e “formazione di una gang criminale”. Nonostante gli eventi di cui è accusato Bambari siano successi nel 2011, non venne arrestato fino all’agosto 2015, quando si recò a una stazione di polizia di Dakhla per rinnovare la carta d’identità.

Se non puoi mettere in discussione ‘l’integrità territoriale’, come si può fare giornalismo?

Il codice giornalistico del 2016 del Marocco ritiene un crimine [19] qualsiasi espressione che possa mettere in discussione “l’integrità territoriale” del regno. La stampa che viene accusata di minare “l’integrità territoriale” del Marocco rischia la sospensione, mentre i siti web possono essere bloccati secondo gli articoli 71 e 104 del codice giornalistico. Qualsiasi discussione o delle indagini collegate all’oggetto e qualsiasi attività di giornalismo indipendente che si svolgono nel Sahara Occidentale sono quindi considerati come violazioni, che secondo gli amendmenti [20] [ar] del codice penale del 2016 possono portare al carcere per un periodo da sei mesi a due anni e al pagamento di una multa.

Ma in questo contesto, dove qualsiasi copertura mediatica che metta in discussione “l’integrità territoriale” dello stato marocchino viene criminalizzata, la linea che divide giornalismo e attivismo diventa confusa. Per gruppi di attivisti media e clandestini come Equipe Media [2], la causa di autodeterminazione e libertà di espressione del Sahara Occidentale si fonde in un atto di resistenza pericoloso e ribelle.

Mentre esiste un effettivo cessate il fuoco da parte dell’ONU tra il Marocco e il Fronte Polisario dal 1991, il conflitto non è per niente terminato. Con lo spostamento del centro gravitazionale della resistenza del Sahara Occidentale dai guerriglieri del deserto alla popolazione civile sahrawi nelle città occupate, si è formato un ambiente mediatico clandestino.

Disinteresse internazionale verso la causa sahrawi 

Nonostante gli sforzi di gruppi come Equipe e di altri media indipendenti, c’è veramente poco interesse internazionale per il conflitto del Sahara Occidentale. Il silenzio gioca un ruolo favorevole alla propaganda marocchina che segue una narrativa costruita sul consenso nazionale [21] che il Sahara marocchino non sia in realtà un problema.

“Fanno sembrare che non ci siano problemi qui” afferma Ahmed. “Tutte le volte in cui la resistenza viene a galla affermano che siamo una minoranza che provoca problemi, criminali comuni o agenti stranieri (algerini)”

Quando cominciarono i movimenti di Gdeim Izik e le notizie iniziarono ad diffondersi, i media marocchini l’hanno subito descritta come una protesta causata dalla disoccupazione e dalle difficoltà economiche, facendo pochissimi riferimenti all’occupazione militare. E visto che il territorio è difficilmente accessibile [22] [es] ai giornalisti stranieri, spesso i media esteri riducono la copertura su ciò che appare nella stampa marocchina.

Ahmed non ha esitazione nell’affermare che molti governi europei, primi tra tutti gli ex paesi colonizzatori come Spagna e Francia, sono direttamente implicati e coinvolti nell’occupazione.

What our group tries to do is to fix the spotlight on this place, the last remaining colony in Africa and we are simply asking to be free. But [Spain and France] continue to put economic interests ahead of our human rights. They just don’t care.

Quello che il nostro gruppo cerca di fare è di porre l’attenzione su questo luogo, l’ultima colonia dell’Africa, e chiediamo semplicemente di essere liberi. Ma (Spagna e Francia) continuano a mettere il proprio interesse economico davanti ai nostri diritti umani. Semplicemente non gli importa.