Per i rifugiati Rohingya i sistemi di identificazione significano coercizione, violenza e negazione dell’identità etnica

Una donna Rohingya del Myanmar mostra una foto del SweTinSit. Sette tra le persone ritratte sono state uccise nell'agosto 2017 durante le “operazioni di sgombero” militari nel nord dello stato del Rakhine. Foto di Shafiur Rahman.

Taslima aveva paura di quel giorno. Era il giorno del SweTinSit [en, come tutti i link successivi], il censimento annuale della popolazione condotto dai funzionari del governo del Myanmar nel nord dello stato del Rakhine. Militari, polizia e funzionari doganali avrebbero attraversato lo stato, raccogliendo dati sulle famiglie Rohingya, monitorando la nascita dei bambini, fotografando i componenti delle famiglie ed elencando i loro nomi. Questo succedeva nel 2016, quando le tensioni nel Rakhine stavano aumentando.

Per molti Rohingya, come Taslima e altri a Tula Toli, il suo villaggio, il SweTinSit (o “Controllo dei Registri sulla Mappa” in birmano) era un'ispezione obbligatoria e intensa, sempre imprevedibile. Se qualcuno è assente durante un SweTinSit, i suoi familiari possono essere soggetti a estorsioni, carcerazioni, tassazioni arbitrarie, o vessazioni peggiori. L'anno precedente, una parente di Taslima era stata violentata da un militare.

Durante il SweTinSit del 2016, il cognato di Taslima era andato a lavorare fuori dal villaggio per ripagare un debito. Nel timore di essere arrestato per l'assenza di suo fratello, il marito di Taslima è sparito per i tre giorni che ci sono voluti per finire il censimento a Tula Toli. Taslima ha pagato una multa di 300.000 kyat (208 dollari) per suo cognato e un'altra multa di 200.000 kyat (138 dollari) per suo marito.

I funzionari l'hanno avvertita che se suo marito non fosse ritornato mentre il censimento era ancora in corso ci sarebbero state ulteriori conseguenze. Nelle prime ore del giorno successivo, Taslima racconta che quattro uomini, compreso il capo del villaggio Aung Ko Sein, sono entrati nella sua capanna e l'hanno violentata di fronte ai suoi due figli piccoli.

Dallo SweTinSit in Myanmar alle “Smart Card” in Bangladesh

Ho incontrato e intervistato Taslima nel 2018 dopo che, insieme a centinaia di migliaia di musulmani Rohingya come lei, è riuscita a fuggire in Bangladesh dallo stato del Rakhine.

A quel tempo, le liste e le fotografie prodotte durante il SweTinSit erano le uniche forme di documentazione ufficiale del governo del Myanmar che molti di loro possedevano. Le autorità non concedono la cittadinanza ai Rohingya nati nel territorio del Myanmar. Nei sistemi di documentazione e nella retorica del governo, i Rohingya sono definiti “bengalesi”, insinuando erroneamente che siano migranti del Bangladesh.

In Bangladesh, le foto e le liste del SweTinSit sono diventati ricordi portatili delle persone care, migliaia delle quali sono morte durante le cosiddette “operazioni di sgombero”. Questi documenti sono anche potenzialmente le prove più convincenti che hanno i rifugiati Rohingya per richiedere la cittadinanza, visto che molti di questi registri si estendono per decenni.

Una volta arrivati in Bangladesh, nel campo di Balukhali, Taslima ha scoperto che i membri della sua famiglia si sarebbero dovuti registrare presso le autorità del campo per ricevere gettoni per il cibo. Per registrarsi, a Taslima e alla sua famiglia è stato detto di fornire le generalità, le impronte digitali e una scansione dell'iride che sarebbero stati raccolti e caricati in una “smart card” biometrica.

Parlando con altre persone nel campo, Taslima e suo marito hanno sentito diversi punti di vista sulle smart card. Ma la preoccupazione si è rafforzata e l'opposizione alle smart card è cresciuta e si è diffusa. Molti rifugiati si sono rifiutati di credere che la carta fosse solo una necessità pratica per la gestione e la consegna degli aiuti, che non avesse un significato sociale o politico.

Su Twitter, l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi ha definito la smart card un “documento personale che è anche un segno tangibile di dignità e speranza”. Ma molti Rohingya non erano d'accordo. Al centro del loro sospetto c'era il fatto che le carte non includevano la parola “Rohingya”, nonostante nel database per le smart card fosse presente quest'informazione. La carta stessa descrive i Rohingya che la possiedono come “Cittadini del Myanmar Forzatamente Dislocati”.

Che cos'è un nome?

Si potrebbe pensare che essere chiamato un “Cittadino del Myanmar” sia vantaggioso per molti Rohingya che per anni hanno lottato contro il rifiuto del governo del Myanmar di concedere loro la cittadinanza.

Nay San Lwin, un noto attivista Rohingya e coordinatore del gruppo della diaspora Free Rohingya Coalition, mi ha detto:

It is not standard practice [to include one's ethnicity on an ID card]. But the people in the camps felt very strongly about their ethnic name given their experience of being labelled “Bengali” in Myanmar. They wanted to secure their Rohingya identity on a card finally. They thought it would amount to some international recognition of Rohingya ethnic identity.

Non è una prassi abituale [includere l'etnia sul documento d'identità]. Ma il nome etnico stava molto a cuore alla gente nei campi, vista l'esperienza di essere definiti “bengalesi” in Myanmar. Volevano finalmente assicurarsi che la loro identità Rohingya fosse scritta su un documento. Pensavano che potesse essere una sorta di riconoscimento internazionale dell'identità etnica Rohingya.

E, secondo molti, la decisione di non includere il termine “Rohingya” indicava una stretta collaborazione tra i governi di Bangladesh e Myanmar.

Chi può avere accesso ai dati dopo la registrazione?

La presenza dell'opzione di condividere le proprie informazioni con le autorità del Myanmar era per molti un aspetto ancora più preoccupante del processo, poiché suggeriva che i dati biometrici delle smart card sarebbero stati condivisi con il Myanmar per il rimpatrio, un obiettivo prioritario del governo del Bangladesh da più di quarant'anni.

Molti temevano che i dati delle smart card sarebbero stati integrati nel sistema nazionale di verifica delle carte (carte di verifica nazionale), un tentativo fallito (separato dal processo SweTinSit) di registrare formalmente i Rohingya come immigrati illegali provenienti dal Bangladesh. Il modulo di registrazione includeva una domanda, “quando sei arrivato in Myanmar e da che strada”, con la risposta spesso precompilata. Secondo i Rohingya, le carte NVC li contrassegnavano come stranieri e li privavano della loro condizione legittima di cittadini del Myanmar. Hanno perfino coniato il termine “carta del genocidio”. I Rohingya si sono rifiutati di registrarsi per la carta, anche se alcuni sono stati costretti.

Dopo sei mesi dall'entrata di oltre 700.000 Rohingya in Bangladesh nell'agosto 2017, il Myanmar ha inviato il ministro per l'assistenza sociale, Win Myat Aye, nei campi del Bangladesh per “convincere” i rifugiati a tornare. Secondo la sua delegazione, le carte NVC sarebbero servite a verificare l'identità dei rifugiati di ritorno in Myanmar. Ha promesso che ai possessori della carta sarebbero stati garantiti libertà di movimento, accesso a sanità ed educazione e permesso di attraversare il confine.

Con l'introduzione delle smart card, gli attivisti temevano che la condivisione dei dati avrebbe nuovamente permesso al Myanmar di proporre loro le odiose carte NVC, ma questa volta con la legittimità conferita dagli organi delle Nazioni Unite.

Un gruppo all'interno del campo, chiamato Arakan Rohingya Society for Peace and Human Rights, si è opposto fortemente alle smart card e ha organizzato una mobilitazione contro questo sistema. L'organizzazione è stata messa sotto pressione dalle autorità, quindi le proteste non sono state molto diffuse e sono state annullate nel dicembre 2018. Il leader del gruppo, Mohibullah, ha salvato le apparenze sostenendo che il nome Rohingya sarà incluso nel processo, ma non è stata una vera vittoria per i manifestanti: il nome era nel database già dal 2017, quando le carte sono state introdotte per la prima volta. Ad oggi, il nome Rohingya non compare ancora sulle smart card.

Rifugiati picchiati per aver rifiutato la Smart Card

Il processo di registrazione per la smart card è stato straziante per molti rifugiati. Nel 2018 ho iniziato a sentire segnalazioni di diversi generi di “irregolarità”, coercizioni e pestaggi. Nelle interviste che ho condotto, i testimoni hanno raccontato di incidenti verificatisi al momento della raccolta delle informazioni e di pestaggi inflitti dalle autorità.

Il 10 ottobre 2018 diverse donne nel campo di Musini, in un evidente stato di angoscia, hanno girato video interviste descrivendo il duro trattamento, pestaggi inclusi, a cui erano state sottoposte dalle autorità del campo il giorno prima. Nay San Lwin, della Free Rohingya Coalition, ha deciso di prendere i video e mostrarli personalmente al ministro degli esteri del Bangladesh, Shahidul Haque, lamentando che i rifugiati venivano picchiati per aver rifiutato la smart card.

Poco dopo, Nay San Lwin è stato bandito dai campi e i servizi segreti del Bangladesh hanno iniziato a controllare i suoi movimenti. Il Commissario per il rimpatrio e il sostegno ai rifugiati, Abdul Kalam, ha rilasciato una rapida smentita delle violenze.

La famiglia di Taslima ha ricevuto le smart card a luglio 2019, molto tempo dopo la fine delle proteste contro le carte. Taslima dice che si è comunque sentita un po’ in ansia quando hanno raccolto i suoi dati biometrici.

“Ho dovuto stare in fila tutto il giorno. Ci hanno detto che avrebbero sospeso le razioni e che non potevamo stare nei campi. Non avevamo scelta”.

Quando le ho detto che la sua smart card conterrà informazioni su di lei per anni, forse decenni, Taslima sembrava perplessa.

“Loro sapranno tutto di noi, ma a noi non hanno mai detto niente. Ci hanno anche fatto delle foto, proprio come in Myanmar”.

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