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Dopo anni di appropriazione culturale, le tessitrici Maya chiedono protezione legale per il loro patrimonio

Categorie: America Latina, Guatemala, Arte & Cultura, Attivismo, Campagne, Citizen Media, Diritti umani, Economia & Business, Etnia, Indigeni, Lavoro, Legge, Protesta, The Bridge

“I Maya guatemaltechi hanno subito per anni il furto dei loro tessuti, sia da parte di aziende straniere che da stilisti autoctoni non indigeni.” Foto scattata alla cooperativa Ut'z Bat'z da Julie Houde-Audet. Utilizzata su autorizzazione.

Nel 2011, Alejandra Barrillas, la partecipante guatemalteca al concorso di Miss Universo, è salita sul palco indossando quello che agli occhi del mondo – e forse ancora di più del Guatemala –  è parso come un abito ispirato alla tradizione indigena, perfettamente consono all'evento in questione. Tuttavia, alla vista dell'abito, la comunità indigena Maya del Guatemala è rimasta indignata [1] [es]: a quanto pare, il vestito della donna, ideato dallo stilita guatemalteco Giovanni Guzmán, era un tipo di abito da cerimonia indigeno, riservato esclusivamente ai capi più anziani della comunità.

I Maya del Guatemala hanno subito per anni il furto dei loro tessuti, sia da parte di aziende estere che da stilisti autoctoni non indigeni. Ad esempio, la comunità ha espresso il suo disappunto verso la stilista Alida Boer [2] [en, come i link seguenti], fondatrice di Maria’s Bags [3], che utilizza i motivi decorativi indigeni Maya senza autorizzazione e vende online le sue creazioni per un massimo di 600 dollari.

Il governo del Guatemala ha fatto poco per proteggere i tessuti e i disegni della comunità indigena, tant'è vero che la proprietà intellettuale dei Maya è esclusa dalla normativa nazionale. Questa falla legislativa non ha impedito allo Stato e all'Inguat, l'organizzazione turistica nazionale, di servirsi dei tessuti e dei prodotti artigianali indigeni per promuovere il turismo; uno sfruttamento che va di pari passo con il totale disinteresse per la tutela dei diritti della piccola comunità etnica che, non solo costituisce approssimativamente il 40% della popolazione, ma anche l'80% dei poveri del paese [4].

“Invitano i turisti a visitare il paese usandoci come esche. I nostri vestiti, la nostra cultura, il nostro lavoro, ma neanche un parte dei loro profitti ritorna alla comunità indigena. Questo è ciò che denunciamo con il brevetto.” Foto scattata alla cooperativa Ut'z Bat'z da Julie Houde-Audet. Utilizzata su autorizzazione.

I Maya guatemaltechi vivono ancora all'ombra della guerra civile che scoppiò tra il 1960 e 1996 e che causò il massacro e la scomparsa di 200.000 indigeni [5]Circa l'83% delle persone uccise durante lo scontro erano di etnia Maya, senza contare le innumerevoli vittime di violazioni dei diritti umani commesse dal governo e dalle forze militari. [6] Un alto numero di funzionari è attualmente accusato di crimini di guerra, incluso Efraín Ríos Montt, l'ex capo di Stato incriminato di genocidio [7].

“Ci trattano come oggetti, non come esseri umani”, dichiara Angelina Aspuac, tessitrice e portavoce di Associazione delle donne per lo sviluppo di Sacatepequez (AFEDES), “Invitano i turisti a visitare il paese usandoci come esche. I nostri vestiti, la nostra cultura, il nostro lavoro, ma neanche un parte dei loro profitti ritorna alla comunità indigena. Questo è ciò che denunciamo con il brevetto.”

“Le tessitrici Maya sostengono che, in qualità di artiste, i loro lavori dovrebbero essere riconosciuti come proprietà intellettuale”. Foto scattata alla cooperativa Ut'z Bat'z da Julie Houde-Audet. Utilizzata su autorizzazione.

Il brevetto a cui Aspuac si riferisce è il fulcro di una campagna lanciata a maggio 2016 dalle tessitrici Maya guatemalteche per riappropriarsi del loro patrimonio culturale. Un gruppo composto da 30 organizzazioni di 18 comunità linguistiche del Guatemala con a capo AFEDES, ha presentato un'azione legale [8] davanti alla Corte costituzionale del paese, affinché il governo riconosca che l'esclusione dei lavori delle tessitrici Maya dalle leggi sulla proprietà intellettuale è anticostituzionale.

Il disegno di legge [9] presentato al Congresso riconoscerebbe quello che le tessitrici chiamano “la proprietà intellettuale dell'intero popolo indigeno”, e riformerebbe cinque articoli che regolano l'industria nazionale e il diritto sulla proprietà industriale. Con la proposta si cerca di riconoscere la proprietà intellettuale al popolo indigeno [10] [es], in modo che venga designato come unico autore e padrone del suo patrimonio artistico e culturale. In questa prospettiva, coloro che utilizzeranno e riprodurranno i prodotti artigianali Maya saranno obbligati a pagare i diritti d'autore agli artisti originali.

“Attualmente il nostro lavoro non è valorizzato perché non esistono articoli che proteggono la collettività delle creazioni”, afferma Aspuac, “Anzi, c'è stata un'appropriazione e una mercificazione della cultura e dei motivi decorativi.”

Aspuac afferma che i diritti d'autore verrebbero divisi tra i membri della comunità. Quest'ultima eleggerebbe dei rappresentanti che si occuperebbero sia di negoziare con le aziende interessate all'uso dei motivi decorativi, sia di gestire la distribuzione dei profitti tra i membri della comunità. L'intento di Aspuac e altri membri del movimento è quello di investire fondi in progetti sociali, come scuole per tessitrici e istruzione per donne e bambini.

Foto scattata alla cooperativa Ut'z Bat'z da Julie Houde-Audet. Utilizzata su autorizzazione.

La speranza è che con il brevetto dei loro tessuti e disegni, i Maya possano ottenere una maggiore autonomia e controllo sul loro patrimonio culturale, in modo da alleviare due dei principali problemi che affliggono la comunità: l'espropriazione e la svalutazione culturale; senza contare che i diritti d'autore permetterebbero anche l'uscita da un circolo vizioso di povertà difficile da interrompere.

Le tessitrici non sono sole nella loro battaglia. Nel 2015, la comunità di Tlahuitoltepec, a Oaxaca, nel sud del Messico, ha accusato la stilista francese Isabel Marat di aver plagiato [11] un loro antico motivo decorativo risalente a 600 anni fa. Nel 2012, la Navajo Nation, negli Stati Uniti, ha intentato una causa [12]contro Urban Outfitters per aver usato il suo nome in una serie di prodotti, tra cui “pantaloni hipster Navajo” e “thermos con stampe Navajo”. A giugno 2017, per mettere fine a questo tipo di appropriazione culturale e plagio, 189 delegati di comunità indigene mondiali si sono riuniti a Ginevra, con l'intento di convocare una commissione speciale all'interno dell'Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (WIPO) che vieti l'appropriazione illegittima [13] delle culture indigene nel mondo.

Forse, ancora più importante per la comunità Maya, un brevetto rappresenterebbe un riconoscimento del valore del loro lavoro. I tessuti e gli abiti indigeni tradizionali, come l’huipil [14] [it] – un capo intrecciato completamente a mano dalle donne Maya – hanno un significato simbolico per le tessitrici.

“La produzione di un huipil non è mai fine a se stessa”, afferma Lucía, tessitrice Maya di Chichicastenango e membro della cooperativa femminile Ut’z Bat’z [15]. “Ognuno di essi ha un significato. Ad esempio, a Quiche, i disegni ritraggono serpenti, perché richiamano le curve di una M, la quale indica anche le montagne dove i nostri antenati si arrampicavano per osservare i territori circostanti. Il colletto rappresenta il sole, e gli angoli i quattro punti cardinali.”

Come dichiara Ambrocia Cuma, tessitrice Maya e professoressa alla Tulane University, “gli huipiles per me sono un'identità. Sono fonte di conoscenza, perché rappresentano la conversazione quotidiana della donna con la natura.”