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Dai campi alle prigioni: la nuova grande catastrofe per i diritti umani nello Xinjiang

Categorie: Asia orientale, Cina, Citizen Media, Diritti umani, Etnia, Guerra & conflitti, Politica, Religione

Kazaki dello Xinjiang mostrano foto dei loro parenti condannati.

Poco più di dieci anni fa la struttura di via Dongzhan 1327 [1], qualche chilometro a nord di una stazione merci abbandonata nella periferia settentrionale di Urumqi, Xinjiang, era circondata perlopiù da erba e alberi. Il 16 settembre 2009 è diventata ufficialmente la nuova sede della Prigione femminile dello Xinjiang, una mossa avvenuta sulla scia delle famigerate sommosse del 5 luglio [2] [it], e non molto tempo dopo la struttura ha ricevuto quella che sarebbe diventata la sua prima detenuta di alto profilo – la scrittrice, moderatrice di un sito, e dipendente del governo Gulmire Imin [3] [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione], condannata a vita [4] in un processo a porte chiuse.

Nonostante la continua attenzione internazionale [5], a Imin non sono state fatte concessioni negli anni a seguire, ed è stata anzi seguita da altre donne le cui modeste biografie appaiono in netto contrasto con la severità delle loro sentenze. Una di loro, Buzeynep Abdureshit [6], una ventisettenne i cui soli possibili “crimini” sono l'aver studiato in Egitto e avere un marito all'estero [7], nel 2017 è stata condannata a sette anni [8] per “aver riunito folle per turbare l'ordine sociale”. In seguito, nel giugno 2019, la prigione è diventata la destinazione di Nurzada Zhumaqan [9] e Erlan Qabden [10] – entrambe donne di etnia kazaka sulla cinquantina, entrambe con problemi di salute, nessuna delle quali ha commesso alcun crimine identificabile. Le loro condanne? Rispettivamente 20 e 19 anni.

Guardie al banco registrazione della prigione femminile di Urumqi. (fonte: account WeChat della “Ispezione e supervisione della disciplina penitenziaria dello Xinjiang”).

A parte la loro intrinseca crudeltà, queste recenti sentenze sono particolarmente preoccupanti perché probabilmente indicano la direzione verso cui sta andando la repressione nello Xinjiang. Mentre il mondo si concentra soprattutto sui campi di “rieducazione” nella regione, le statistiche dello stesso governo [11], alcune limitate indagini giornalistiche [12] e nuove prove [13], presentate dai parenti delle vittime e dagli ex-detenuti nel confinante Kazakistan, suggeriscono che un numero inconcepibile delle persone detenute tra il 2017 e il 2018 stia ora ricevendo lunghe condanne e che venga trasferito nelle prigioni più grandi, come quella a Urumqi.

Per Aibota Zhanibek, la più grande delle figlie di Nurzada Zhumaqan e oggi cittadina kazaka, le notizie sono state particolarmente strazianti perché arrivate nel periodo di Capodanno – un periodo in cui molti in Kazakistan apprendevano che i loro parenti erano stati rilasciati dai campi in una ondata di rilasci di massa [14] nel tardo dicembre 2018. Mentre molti condividevano la buona notizia, Zhanibek ha appreso che sua madre era stata condannata alla detenzione, come emerso successivamente, per aver “usato la superstizione per minare le forze dell'ordine” e “riunito folle per disturbare l'ordine sociale”. Erlan Qabden, un'infermiera di un'altra contea della stessa prefettura di Zhumaqan, era stata condannata per aver “usato l'estremismo per minare le forze dell'ordine” e “provocato litigi e creato problemi”, accuse che – stando ai suoi parenti in Kazakistan – derivano dall'aver partecipato a una cerimonia di alzabandiera indossando un foulard.

L'avviso ufficiale della detenzione di Erlan Qabden (traduzione in inglese a fronte dell'autore).

All'ufficio dell'organizzazione Atajurt Kazakh Human Rights [15] ad Almaty, dove Zhanibek si reca ogni settimana per richiedere il rilascio di sua madre [16] [kk] davanti a una telecamera, la maggior parte dei visitatori che portano testimonianze e appelli non parlano più di campi – come facevano un anno fa  – ma di prigioni. Anche se frammentarie e corrotte dalle dicerie, le informazioni ottenute parlando con poco più di una decina dei querelanti è sufficiente per individuare una tendenza comune: le lunghe sentenze, i mesi o addirittura gli anni trascorsi in detenzione prima del processo e il fatto che vengano presi particolarmente di mira gli uomini religiosi.

Lo studio statistico dei profili delle vittime – i cui dati provengono da migliaia di testimonianze video pubbliche [17] [kk], raccolte da Atajurt e analizzate dal Xinjiang Victims Database [18] – rende possibile corroborare alcune delle osservazioni qualitative su base quantitativa. Una comparazione delle vittime che risultano aver ricevuto condanne in prigione [19] con quelle che risultano essere state rilasciate [20] dai campi mostra che oltre il 90% delle persone condannate (e il 69% di quelle rilasciate) erano uomini , e più del 75% dei detenuti (27% dei rilasciati) si ritiene sia stato detenuto per motivi religiosi. Un'analisi di 311 vittime e delle relative pene detentive mostra una media di condanne di 11,2 anni, con pene lunghe 5 anni o più per l'89% delle persone, mentre uno studio di 65 vittime detenute per 2 o più mesi [21] mostra che, per queste vittime, in media il periodo di detenzione prima del processo è durato approssimativamente 9 mesi, un anno o più per il 30% di loro.

Un confronto tra genere e motivo della detenzione delle vittime kazake condannate al carcere, e quello delle vittime rilasciate dai campi (fonte: Xinjiang Victims Database, visualizzato il 17 settembre 2019).

Pene detentive delle vittime che hanno ricevuto una condanna in Xinjiang dalla fine del 2016 (fonte: Xinjiang Victims Database, visualizzato il 17 settembre 2019).

Durata del periodo che le vittime hanno trascorso in detenzione prolungata, di 2 mesi o più, prima di aver ricevuto una condanna (fonte: Xinjiang Victims Database, visualizzato il 17 settembre 2019).

Si ritiene che molte delle persone condannate siano state trasferite in prigione dopo un periodo in una struttura detentiva pre-processo (kanshousuo [22] [it]) – istituzioni tristemente famose per il loro abuso [23] che, stando alle testimonianze [24] degli ex-detenuti, sono luogo di estremi maltrattamenti e terribili condizioni di vita. Inoltre un certo numero di resoconti di testimoni oculari dà ragione di credere che le persone internate illegalmente nei campi di “rieducazione” della regione siano anche condannate mentre sono ancora nei campi. Quattro ex detenuti kazaki, che hanno trascorso la maggior parte del 2018 nei campi, hanno dichiarato di aver visto o sentito parlare di “pubbliche udienze” all'interno delle “scuole”. Due di loro, Ergali Ermek [25] e un detenuto che – avendo scelto di mantenere l'anonimato – sarà qui chiamato “Ruslan”, hanno entrambi dichiarato che le stesse persone che venivano condannate a più di 10 anni venivano poi trasportate nelle prigioni vere e proprie. Un caso noto è quello di Zhiger Toqai [26], uno studente dell'Università Satbayev di Almaty, la cui detenzione è stata inizialmente denunciata dai parenti in Kazakistan e la cui condanna è stata confermata da Ruslan, suo ex compagno di cella al campo. In un'intervista pubblicata di recente [27], Rahima Senbai [28] ha ricordato una pubblica udienza in cui sette donne avevano ricevuto una condanna per aver osservato l’iftar [29] [it].

Lo studente universitario Zhiger Toqai, arrestato nell'estate del 2017, è stato prima mandato in un campo, poi condannato a più di  10 anni di prigione nel 2018 (fatto confermato sia dai suoi parenti che da quelli che erano detenuti nel campo con lui).

Per i malati e gli anziani, i lunghi periodi di detenzione equivalgono a delle condanne a morte, e mandano in frantumi non solo il morale dei parenti all'estero ma anche ogni finzione di un legittimo sistema penale in Xinjiang. Tuttavia in questa illegittimità c'è anche speranza, perché senza una fondazione solida né argomentazioni convincenti potrebbe essere più facile far revocare queste assurde condanne e rilasciare i detenuti – un fenomeno già osservato con i campi illegali. Le storie di Ergali Ermek e Ruslan – entrambi condannati ma poi comunque rilasciati – sembrano dei primi esempi, come anche il caso di Gulbahar Haitiwaji [30], che sarebbe stata condannata a 7 anni nel dicembre 2018 ma a cui di recente è stato permesso di ritornare in Francia [31]. Con una sufficiente pressione e condanna da parte della comunità internazionale, non è impossibile che si schiudano persino le porte della Prigione femminile dello Xinjiang, permettendo a persone come Buzeynep Abdureshit, Nurzada Zhumaqan, e Erlan Qabden di godere di nuovo di un certo grado di libertà. E forse persino a persone come Gulmire Imin.