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Precarietà e resilienza a Calais

Categorie: Europa occidentale, Francia, Citizen Media, Diritti umani, Interventi umanitari, Migrazioni, Rifugiati, The Bridge
Migrants protest that UK open the border Calais Eurostar Terminal France. PHOTO © Jess Hurd/reportdigital.co.uk © Jess Hurd/reportdigital.co.uk Tel: 01789-262151/07831-121483 info@reportdigital.co.uk NUJ recommended terms & conditions apply. Moral rights asserted under Copyright Designs & Patents Act 1988. Credit is required. No part of this photo to be stored, reproduced, manipulated or transmitted by any means without permission. [1]

Al terminal dell'Eurostar di Calais, i migranti manifestano per chiedere al Regno Unito l'apertura delle frontiere. © Jess Hurd/ reportdigital.co.uk.

Al di là della boscaglia e delle dune di sabbia disseminate da rifiuti che fungono da residenze precarie per più di 5000 uomini, donne e bambini, ci sono cartelli costruiti con compensato e cartone che accolgono i visitatori nella giungla di Calais [2] [it] e che chiedono giustizia, libertà e asilo per i rifugiati che popolano il campo.

Sottili tende colorate e rifugi di tela cerata sono raggruppati in vari accampamenti nella periferia della città francese, con l'intento di ricreare un clima familiare e una parvenza di normalità. Alcune tende sono decorate con disegni, simboli, ricordi di luoghi e persone lontani e affermazioni che esprimono perdita, speranza e lotta: “Il Darfur sta sanguinando”, “Libertà, non barriere”, “Queste frontiere uccidono”, “Nero non è un crimine. Orgoglioso di essere nero”, “Noi siamo i sopravvissuti”.

I richiedenti asilo, che la notte prima hanno cercato di lasciare Calais per raggiungere l'Inghilterra attraverso La Manica, in gruppo tornano a passo lento al campo, chiacchierando tranquillamente mentre passano davanti al piccolo falò acceso da chi si è appena svegliato. Condividono le ultime notizie di coloro che sono riusciti ad attraversare il canale e di chi, invece, non ce l'ha fatta. Alcuni dei presenti che cercano calore attorno al fuoco hanno stampelle o bastoni di fortuna, attendono di guarire le fratture multiple che si sono procurati mentre cercavano di salire su un camion o saltare su un treno ad alta velocità che, clandestinamente, li avrebbero portati in Inghilterra. Attendono di guarire, prima di riprovarci ancora. Altri hanno gli occhi gonfi per l'esposizione a gas lacrimogeni e spray al peperoncino, costole e arti rotti a causa delle violenze subite dalla polizia.

Nonostante lo squallido ambiente che li circonda, i rifugiati – dall'Eritrea, Etiopia, Sudan, Afghanistan, Siria, Somalia, Palestina, Iraq, Libia, Algeria, Mali e altrove – cercano di creare un senso di comunità e degli spazi accoglienti. Ristoranti, una piccola panetteria, una libreria, scuole, spazi dedicati alle arti e alla musica, luoghi di culto e centri comunitari sono stati tirati su dagli abitanti del campo con gli stessi materiali con cui hanno costruito le tende in cui dormono: pezzi di legno di pallet, teloni di plastica, compensato, lamiere, vestiti e coperte.

Nella chiesa ortodossa etiope, donne e uomini si raccolgono in preghiera. Mentre la musica bella e malinconica della cerimonia risuona in sottofondo e le candela e l'incenso bruciano su piccoli altari, Sara, 22 anni, che è in viaggio da più di un anno e mezzo, confida: “È l'unico posto nel campo in cui posso rilassarmi e sentirmi umana. Vengo qui per sfuggire al caos e al frastuono che c'è fuori e sentire la speranza dentro di me”.

Sara vive con altri quattro amici dall'Eritrea e dall'Etiopia, tutti con la famiglia in Inghilterra. Sperano di farcela, insieme, ad attraversare il confine protetto da recinzioni e fili spinati che segna la fine del loro lungo viaggio. Detenuta in Libia con altri eritrei mentre i suoi famigliari sono stati costretti a pagare denaro extra ai trafficanti per liberarla, Sara ha conosciuto compagne di viaggio che sono state torturate e violentate dai loro rapitori: “È stata la parte peggiore. Queste donne provavano molta vergogna per quello che avevano subito e non volevano che le loro famiglie lo sapessero, nonostante l'evidente sofferenza. Siamo vivi e siamo forti, ma durante questo viaggio abbiamo vissuto esperienze che difficilmente dimenticheremo”.

Più tardi, veniamo accolti nella piccola struttura in cui Sara, Awet, Mariam e i suoi amici vivono. Le giovani preparano per noi injera e spezzatino di pomodoro piccante su un fornello da campeggio. Un recente arrivato, un viaggiatore curdo solitario, si ferma e chiede se può prendere in prestito una pentola. Meron, un giovane laureato di 25 anni, gliene dà una, poi lo invita a unirsi a noi per il pranzo. Esita, prima di rifiutare timidamente. “La solidarietà è importante qui nel campo”, afferma Meron. “Ci mantiene forti e ci dà speranza. Se non ci aiutassimo reciprocamente, la nostra condizione sarebbe ben peggiore”.

In una tenda vicina alla clinica di compensato del campo, Ahmed, un ingegnere e giovane lavoratore palestinese proveniente dal campo profughi di Yarmouk, a Damasco, accoglie i passanti con té e ricordi. Membro di un dinamico centro comunitario a Yarmouk, lui e i suoi amici hanno tentato di replicare le loro attività sociali mentre erano nei campi profughi in Turchia: “Volevamo mantenere un senso di comunità per ricordarci che, oltre ad essere rifugiati, siamo altro”, afferma, “ma la nostra esperienza in Turchia e in Europa è stata difficile e umiliante. Chiediamo solo di essere trattati alla pari, come esseri umani”.

Seduti sulle panchine fuori alla clinica, un gruppo di uomini sudanesi ed eritrei parla di conoscenti che sono morti negli ultimi tempi nel tentativo di raggiungere l'Inghilterra attraverso La Manica: un insegnante somalo fulminato dai cavi elettrici nel tentativo di saltare su un treno in corsa; uno studente eritreo investito da un'auto mentre era inseguito dalla polizia; un musicista curdo rimasto schiacciato da un camion; un sudanese, padre di tre figli, investito da un treno; i corpi senza vita – di coloro che erano così disperati da attraversare La Manica a nuoto, da soli e di notte – portati a riva dalle onde; e i tanti altri che si aggiungono a un crescente bilancio delle vittime.

“Stiamo scappando da guerre e oppressioni, ma quando arriviamo qui siamo trattati come criminali,” afferma Mulu. “Come se non bastasse, dobbiamo anche subire aggressioni da parte della polizia e di gruppi razzisti locali”.

Khalil è un droghiere algerino le cui moglie e figlia sono rimaste a Londra, mentre lui è andato ad Algeri per il funerale di sua madre. Quando ha cercato di tornare in Inghilterra, gli è stato negato il permesso di rientrare: “Abbiamo il diritto di ricongiungerci con i nostri familiari e costruire le nostre vite. Guardatevi attorno, da dove proviene la maggior parte delle persone che popola questo campo? Da paesi che sono stati colonizzati o attaccati militarmente da altri paesi, gli stessi che adesso ci trattano come criminali e ci fanno rischiare la vita nel tentativo di riunirci con le nostre famiglie”

Più tardi, tra fango e pozze d'acqua,  ci dirigiamo verso la biblioteca con Samer. L'uomo è un insegnante sudanese che sta aiutando a organizzare una scuola per bambini e corsi di lingue per adulti. Mentre camminiamo, incrociamo un uomo curvo e molto anziano. Hussein ha 74 anni, viene dall'Iran e ha un figlio che vive a Londra: “Sono troppo vecchio per questo campo e per poter saltare su treni o camion. Ma, con un po’ di fortuna e il volere di Dio, me la caverò”. Quando il sole è al tramonto lo incontriamo di nuovo, da solo, seduto su una cassa di plastica vuota. Ci fermiamo a chiacchierare e mentre andiamo via ripete: “Con un po’ di fortuna e il volere di Dio, me la caverò”.

Quando cala la notte e inizia a piovere, ci sediamo con famiglie afgane, siriane, irachene e curde in un'area del campo in cui sono raggruppati i nuovi arrivati. Sedute attorno al fuoco alimentato con resti di legno di pallet e qualunque altro materiale abbastanza combustibile da bruciare, le persone tentano di restare asciutte cercando ricovero sotto teloni e tende di plastica. Un té caldo e dolce viene distribuito tra i presenti, e coloro che hanno portato uno strumento musicale intonano canzoni tipiche dei propri paesi.

Ahmed, un fioraio di Damasco rimasto disoccupato nei mesi precedenti alla partenza, afferma: “I fiori sono per le occasioni gioiose e noi non abbiamo molto da festeggiare”. L'uomo siede con suo figlio di 12 anni, Mallas, affetto da disabilità mentali. Confessa che non è stato semplice gestirlo durante la traversata in gommone dalla Turchia all'isola greca di Samos: “Voleva alzarsi e muoversi, abbiamo dovuto trattenerlo fisicamente affinché il gommone non si capovolgesse”. L'uomo ha potuto contare su altri compagni di viaggio lungo la strada, e spera che alla fine riceverà supporto ovunque potrà finalmente chiedere asilo. “Mio figlio è l'unico motivo per cui abbiamo lasciato la Siria. Mia moglie e mia figlia sono rimaste a casa, e ci resteranno fin quando non potrò chiedere il ricongiungimento familiare. Vogliamo vivere in un posto in cui nostro figlio possa ricevere l'assistenza e il rispetto che merita”.

Hozan, un uomo curdo di 65 anni proveniente da Mosul, ci mostra le molteplici cicatrici che ha sul corpo. Rapito dall'ISIS in seguito alla caduta di Mosul, l'uomo è stato torturato per mesi durante la sua prigionia: “Mi trattavano come un animale e minacciavano di giustiziarmi. Mi dicevano ogni giorno di prepararmi alla morte ma, in qualche modo, sono sopravvissuto”.

Jamila, incinta di nove mesi, proveniente da Dohuk, nel Kurdistan, ha camminato per decine di chilometri le scorse settimane. “Prima di partire avrei voluto almeno aspettare che il bambino nascesse, ma non ho avuto scelta”, afferma.  

Fatima, un'insegnante di inglese di Herat, in Afghanistan, siede circondata dai suoi cinque bambini. La più piccola ha cinque anni e riposa tra le sue braccia: “Mi sento male per quanto questo viaggio sia stato difficile per i miei bambini”, afferma, “ma non abbiamo avuto scelta, dovevamo partire. Spero che in futuro avremo la possibilità di vivere in pace e al sicuro”.

Coloro che stanotte tenteranno la traversata sotto la pioggia si preparano. Avvolgono cellulari e documenti in buste di plastica, scrivono i loro nomi sulle braccia o pezzi di carta affinché i loro corpi possano essere identificati nel caso in cui non dovessero sopravvivere, bevono un'ultima tazza di té e salutano gli amici. Amadou, dal Mali, è pensieroso. È sopravvissuto al naufragio di una barca al largo delle coste di Lampedusa e ha visto morire molti di coloro che erano a bordo con lui. Per evitare di essere registrato in Italia o altrove lungo la strada, ha percorso centinaia di chilometri per sfuggire alle forze dell'ordine, ed è stato sfruttato e derubato dei pochi soldi che aveva con sé. Bloccato a Calais negli ultimi mesi, ha fatto affidamento sul limitato, seppur instancabile, sostegno delle organizzazione locali e sulla solidarietà di attivisti e volontari.

“Nonostante tutto”, afferma Amadou, “ho mantenuto la mia dignità, e la speranza di una nuova vita è molto forte. Sono arrivato fin qui e voglio andare fino in fondo”. Lui e altre centinaia di viaggiatori si incamminano nella notte, verso un futuro incerto e precario.

Maggiori informazioni sulla nostra copertura speciale: Streams of Refugees Seek Sanctuary in Europe [3] [en].