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Il Japan Times ritorna sulla sua linea editoriale e ridefinisce i termini ‘comfort women’ e ‘lavoro forzato’

Categorie: Citizen Media, Diritti umani, Donne & Genere, Guerra & conflitti, Lavoro, Legge, Media & Giornalismi, Migrazioni, Relazioni internazionali, Storia
Comfort_Women,_rally_in_front_of_the_Japanese_Embassy_in_Seoul,_August_2011 [1]

Manifestazione per le Comfort Women davanti all'Ambasciata del Giappone a Seul, agosto 2011. Foto di Claire Solery [1]. Diritti d'immagine: CC BY-SA 3.0 [2], da Wikimedia Commons

Dopo le email infuriate dei lettori, la condanna della stampa internazionale e l'allontanamento di alcuni dei collaboratori, il Japan Times è tornato sui suoi passi su una linea editoriale che ha cambiato il modo in cui il giornale si riferisce ai lavoratori forzati in tempo di guerra e alle cosiddette “comfort women.”

La controversia e la conseguente ritrattazione sono state scatenate da una nota di un redattore allegata ad un articolo del 30 novembre [3] [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione] del Japan Times riguardo una delibera della Corte Suprema della Corea del Sud che ha stabilito che la Mitsubishi Heavy Industries dovesse pagare un risarcimento per i lavori forzati in tempo di guerra.

Date un'occhiata alla nota del redattore del Japan Times riguardo le comfort women e i lavoratori forzati.

La nota del redattore del 30 novembre, che si può ancora leggere [3] in fondo all'articolo, afferma che il termine “lavoro forzato”e il modo in cui le “comfort women” sono state descritte sul Japan Times in passato potrebbero essere stati fuorvianti:

Editor's note: in the past, The Japan Times has used terms that could have been potentially misleading. The term “forced labor” has been used to refer to laborers who were recruited before and during World War II to work for Japanese companies.

However, because the conditions they worked under or how these workers were recruited varied, we will henceforth refer to them as “wartime laborers.”

Similarly, “comfort women” have been referred to as “women who were forced to provide sex for Japanese troops before and during World War II.”

Because the experiences of comfort women in different areas throughout the course of the war varied widely, from today, we will refer to “comfort women” as “women who worked in wartime brothels, including those who did so against their will, to provide sex to Japanese soldiers.”

Nota del redattore: in passato, il Japan Times ha utilizzato termini potenzialmente fuorvianti. Il termine “lavoro forzato” è stato usato in riferimento ai lavoratori forzati reclutati prima e durante la Seconda Guerra Mondiale per lavorare per compagnie giapponesi.

Tuttavia, in quanto le condizioni in cui lavorarono o il modo in cui questi lavoratori furono reclutati non sono sempre uguali, d'ora in poi ci riferiremo a loro come “lavoratori in tempo di guerra.”

Analogamente, le “comfort women” sono state descritte come “donne che furono obbligate a fornire prestazioni sessuali alle truppe giapponesi prima e durante la Seconda Guerra Mondiale.”

Poiché le esperienze delle comfort women nelle diverse zone nel corso della guerra furono molto differenti, da oggi, faremo riferimento alle “comfort women” come a “donne che lavorarono in bordelli in tempi di guerra, incluse coloro che lo fecero contro la loro volontà, per fornire prestazioni sessuali ai soldati giapponesi.”

Le donne dei paesi asiatici colonizzati, conquistati e occupati, che durante la Seconda Guerra Mondiale furono coscritte e ridotte in schiavitù [6] dalle forze armate giapponesi, chiamate eufemisticamente ianfu (comfort women, o donne di conforto) dalle autorità militari giapponesi, sono a lungo state causa di controversie politiche. Inoltre, più di mezzo milione [7] di coreani furono coscritti [8] dal governo giapponese per lavorare nello sforzo bellico, incluse le miniere di carbone [9] e l'agricoltura, spesso in condizioni strazianti [10].

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo giapponese si è sforzato molto [11] per lasciarsi alle spalle entrambe le questioni. Ad esempio, un accordo [12] tra i governi di Giappone e Corea del Sud alla fine del 2015 è stato portato a termine con lo scopo di risolvere “finalmente e irreversibilmente” [13] la questione delle “comfort women”, ma ha finito per causare diffuse proteste [12] in Corea del Sud. In aggiunta, anche un collegio elettorale vocale in Giappone sta tentando di modificare la comprensione storica [14] dei crimini di guerra commessi dal governo imperiale giapponese.

La nota del redattore del Japan Times ha immediatamente scatenato critiche internazionali. Il Guardian [15], l'emittente pubblica americana NPR [16], l'emittente pubblica tedesca Deutsche Welle [17] e il South China Morning Post [18] hanno rapidamente criticato il Japan Times per quello che è sembrato revisionismo storico. Il New York Times, che ha un accordo di collaborazione sui contenuti [19] con il Japan Times e gestisce un ufficio a Tokyo, per il momento non ha riportato la notizia.

Ci sono anche indizi che i giornalisti e lo staff interni al Japan Times stesso abbiano respinto il cambio di linea editoriale. Il collaboratore di lunga data Arudou Debito, le cui colonne controverse hanno portato una grande quantità di traffico al Japan Times a partire dal 2002, ha criticato il nuovo uso di “comfort women” e lavoratori forzati in un post sul suo blog [20].

Ma è probabilmente stata un'ondata di email e commenti di lettori che ha obbligato il Japan Times a pubblicare il 7 dicembre una dichiarazione a pagina intera, firmata dal caporedattore Hiroyasu Mizuno, per cercare di chiarire la posizione del giornale riguardo la schiavitù sessuale e il lavoro forzato:

Siamo stati informati da Sven Saaler che le scuse del Japan Times sono state pubblicate su pagina intera sull'edizione cartacea. Ci ha mandato questa immagine. (MP)

Nella nota, Mizuno ha sottolineato che il Japan Times non ha cambiato la sua precedente linea editoriale riguardo la schiavitù e i lavori forzati in tempo di guerra, affermando [24], “Data la complessità, la breve nota non era sufficiente, e perciò ha causato non poche supposizioni sulla direzione del Japan Times.”

Mizuno ha successivamente dichiarato, in un commento diverso [25] che ciò che il redattore ha scritto non vuol dire che il giornale stia vietando espressioni come “comfort women” o “lavoro forzato” e che queste descrizioni saranno utilizzate per descrivere una problematica in generale. Le regole stilistiche su quando usare le espressioni o descrizioni a cui si fa riferimento nella nota “saranno applicate caso per caso” sul Japan Times.

Mentre i maggiori quotidiani in lingua giapponese pubblicano tutti edizioni in inglese, il Japan Times è il più antico [26] giornale indipendente in lingua inglese del Giappone. La proprietà del giornale è cambiata nel 2017, quando l'editore precedente è venuto a mancare [27]. Il Japan Times è stato acquisito dalla società di marketing digitale News2u Holdings [28].

Nonostante il nuovo proprietario a partire dal 2017 abbia inserito nuove risorse per migliorare la portata e la qualità di inchieste e notizie digitali come parte di un processo di riorganizzazione del Japan Times, ci sono stati problemi riguardo la relazione dell'editore con il governo Abe [29], che è spesso percepito come sostenitore di un approccio di revisionismo storico al ruolo del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.

Il commentatore di Twitter Ask a Korean [30] ha suggerito che è poco intelligente soffermarsi sulla sfumatura delle parole ignorando la realtà di ciò che i coreani e altre persone in tutta l'Asia hanno patito per mano dell'Impero Giapponese fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale:

È sbagliato confondere le sfumature basate sui fatti con la chiarezza morale. Possiamo discutere delle sfumature per tutto il giorno, ma alla fine è stato il Giappone ad invadere la Corea e sfruttare la schiavitù. La discussione sulla colpevolezza inizia e finisce con questo fatto indiscutibile.