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“L'isola della nave da guerra” in Giappone nasconde la storia di lavori forzati durante la guerra

Categorie: Asia orientale, Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone, Citizen Media, Diritti umani, Economia & Business, Storia
Hashima ("Battleship Island") UNESCO heritage site

Turisti che visitano Hashima (“Isola della nave da guerra”) nel 2017. L'isola, un'ex miniera di carbone, è stata approvata come sito appartenente al patrimonio mondiale dell'UNESCO nel luglio 2015, come parte dei siti giapponesi della rivoluzione industriale Meiji. Nel luglio 2021, l'UNESCO ha dato al Giappone una scadenza [1] per far fronte alle informazioni “insufficienti” disponibili sulla storia del lavoro forzato sull'isola. Foto di Nevin Thompson. Licenza immagine: Creative Commons Attribuzione 3.0

Nel luglio 2021, il governo giapponese e l'UNESCO si sono impegnati brevemente in una guerra di parole a proposito dei siti del patrimonio e sull'eredità del lavoro forzato giapponese. Quando l'UNESCO ha rimproverato [2] [ja] il Giappone per non aver riconosciuto [3] [en, come i link successivi, salvo diversa indicazione] l'uso del lavoro forzato durante la guerra in un sito patrimonio dell'UNESCO, il governo giapponese ha promesso di emettere una rettifica ufficiale e ha affermato che “stava facendo bene [4]“, con la promessa di ricordare le vittime dei lavori forzati.

Il 12 luglio 2021, l'UNESCO ha emesso una decisione provvisoria [5]in cui affermava che il Giappone doveva ancora migliorare il modo in cui parlava dell'uso storico del lavoro forzato negli ex impianti industriali ora riconosciuti collettivamente come Patrimonio dell'Umanità. L'UNESCO ha poi rimproverato [6] formalmente il 22 luglio 2021 per l'apparente riluttanza del Giappone a raccontare la “storia completa” degli ex siti industriali.

La disputa ruota attorno ai “Luoghi della rivoluzione industriale giapponese Meiji: ferro e acciaio, costruzione navale ed estrazione del carbone [7]“, 23 siti storici sull'isola occidentale di Kyushu che sono stati designati collettivamente come patrimonio culturale mondiale dell'UNESCO [8]. I 23 siti sono stati riconosciuti come il luogo di nascita della rapida industrializzazione del Giappone nella seconda metà del XIX secolo.

Il rimprovero dell'UNESCO è arrivato dopo che un punto informazioni [9], costruito a Tokyo appositamente per spiegare e celebrare la Rivoluzione Industriale Meiji, sito Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO a Kyushu, non è riuscito a informare i visitatori che alcuni dei luoghi sono stati luogo di lavori forzati dei coreani in tempo di guerra.

Prima del rimprovero, la decisione provvisoria del 12 luglio indicava che nella richiesta originaria all'UNESCO nel 2015, il governo giapponese ha affermato [5] di essere:

[…] Prepared to take measures that allow an understanding that there were a large number of Koreans and others who were brought against their will and forced to work under harsh conditions in the 1940s at some of the sites, and that, during World War II, the Government of Japan also implemented its policy of requisition. Japan is prepared to incorporate appropriate measures into the interpretive strategy to remember the victims such as the establishment of information center.

[…] Pronti ad adottare misure che permettano di capire che un considerevole numero di coreani e non solo si trasferirono qui contro la loro volontà e furono costretti a lavorare in condizioni difficili negli anni '40 in alcuni di questi luoghi, e che, durante la seconda guerra mondiale, anche il governo giapponese ha attuato la sua politica di requisizione. Il Giappone è pronto a incorporare misure appropriate nella strategia interpretativa per ricordare le vittime, come istituire dei centri di informazione.

L'UNESCO ha rimproverato il Giappone per non aver adempiuto a questo obbligo e si è concentrato in particolare sul lavoro forzato avvenuto ad Hashima, una miniera di carbone situata su un'isola al largo della costa della prefettura di Nagasaki, nel Giappone occidentale. Hashima, meglio conosciuta in tutto il mondo come “Isola della nave da guerra [10]”, anche il luogo di una delle prime miniere di carbone del Giappone [11] , è stata descritta nel film di James Bond “Skyfall [12]“.

Il Giappone ha tempo fino al 1° dicembre 2022 [1] per mettere in atto le raccomandazioni dell'UNESCO riguardo il riconoscimento del lavoro forzato.

La miniera di Hashima era gestita dal gigantesco conglomerato Mitsubishi, che faceva affidamento sul lavoro forzato coreano durante la seconda guerra mondiale per estrarre il carbone. Sono almeno 800 i coreani che sarebbero stati inviati a Hashima durante la guerra, 134 dei quali, come riportato [13], sono morti mentre lavoravano lì.

Un altro fatto finora ufficialmente non riconosciuto dai materiali interpretativi è che anche altri impianti industriali nei “Luoghi della rivoluzione industriale Meiji del Giappone: ferro e acciaio, costruzione navale e estrazione del carbone” dell'UNESCO facevano affidamento sul lavoro forzato. Ad esempio, Mitsui, un altro conglomerato industriale, ha fatto affidamento sui prigionieri di guerra come schiavi per gestire la sua miniera di carbone Miike a Omuta, Kumamoto.

Anche prima della seconda guerra mondiale, o anche prima che il Giappone si impegnasse nell’espansione coloniale [14]in Asia all'inizio del XX secolo, la miniera di Miike faceva affidamento sul lavoro forzato dei detenuti [15] per estrarre il carbone.

Nonostante il suo status di sito del patrimonio mondiale dell'UNESCO, non vi è alcun riconoscimento di questa parte della storia di Miike.

Il Giappone ha il dovere, per il suo accordo con il patrimonio mondiale dell'UNESCO, di raccontare l'intera storia di [Miike] e degli altri luoghi della “rivoluzione industriale Meiji”. Ecco un interessante articolo scritto da David Palmer a proposito del lavoro forzato durante la guerra nella miniera di Miike: https://t.co/xrtlwDOwNa [16]

Il periodo della rivoluzione Meiji [18] del Giappone seguì la fine del periodo Edo [19] nel 1867 e più di due secoli di stretto controllo su quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Con un nuovo governo e un nuovo sistema politico, gli imprenditori Meiji in Giappone hanno rapidamente capitalizzato nuove opportunità di commercio con l'Europa, gli Stati Uniti e altri luoghi in tutto il mondo.

Questi imprenditori locali e il nuovo governo giapponese hanno anche importato [20] [en] nuove tecnologie industriali dall'estero, tra cui l'estrazione mineraria, la produzione dell'acciaio, la produzione e la costruzione navale, nel tentativo di eguagliare la capacità delle potenze occidentali e nel processo, dando il via a una rivoluzione industriale [21][en].

Mentre il centro della vita economica e politica giapponese era Tokyo [22][en], a est, all'inizio dell'era Meiji, l’isola occidentale di Kyushu [23] [en] è generalmente considerata la culla della rivoluzione industriale giapponese. Ciò era dovuto alle rotte commerciali stabilite con la Cina che risalgono a più di mille anni fa e ai collegamenti commerciali oceanici relativamente più recenti con l'Europa.

Ad esempio, la città di Nagasaki e le regioni circostanti furono teatro del primo bacino di carenaggio e cantieri navali del Giappone, alimentati in parte dal carbone estratto dalle vicine Miike [15] [en] e Hashima [13] [en]. Le strutture di costruzione navale di Nagasaki [24] [en] avrebbero infine prodotto alcune delle navi da guerra più grandi e complesse del mondo e sarebbero state prese di mira [25] [en] per un attacco atomico da parte degli Stati Uniti nell'agosto 1945.

L'iniziativa giapponese “Luoghi della rivoluzione industriale Meiji del Giappone”, così come le controverse proposte del patrimonio dell'UNESCO, cercano di commemorare e celebrare questo patrimonio.

Nagasaki Harbor

Porto di Nagasaki. Illuminata al centro dell'immagine si erge la gigantesca gru a sbalzo [26] presso il cantiere navale Mitsubishi Heavy Industries, che, in quanto importante cantiere navale [27], fu preso di mira dai B-29 per un attacco atomico il 9 agosto 1945. La Mitsubishi Heavy Industries arruolò almeno 3.400 [28] lavoratori a lavorare in varie strutture a Nagasaki durante la guerra. Anche prigionieri di guerra australiani, britannici, olandesi e statunitensi furono costretti a lavorare nelle industrie belliche giapponesi a Nagasaki. Mitsubishi Materials, una società mineraria, ha reclutato ancora più lavoratori per lavorare in varie miniere, tra cui Hashima, ora patrimonio mondiale dell'UNESCO. Foto di Nevin Thompson. Licenza immagine: Creative Commons Attribuzione 3.0

“Molto poco della storia dell'industrializzazione del Giappone presentata nei loro nuovi siti patrimonio dell'UNESCO è vero”, afferma lo storico Mindy Kotler in una newsletter del luglio 2021. Kotler è il direttore dell’Asia Policy Point [29], un centro di ricerca di Washington DC che studia le relazioni politiche degli Stati Uniti con il Giappone e l'Asia nordorientale.

In un articolo [30] del luglio 2021 riguardate le iniziative dell'UNESCO in Giappone, Kotler sottolinea che le miniere, le fonderie e i moli che costituiscono il nucleo della lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO del Giappone in genere omettono un dettaglio storico essenziale:

The Japanese, however, left out any mention of […] forced labor and abuse, which was the substance of the hundreds of war crimes trials throughout the postwar Pacific.

UNESCO approved the designations in 2015 but conditioned the designations on a promise to provide a “full history” of these sites. Yet, six years later, Japan has not fulfilled this promise.

I giapponesi, tuttavia, hanno tralasciato ogni menzione di […] lavoro forzato e abusi, che erano la sostanza delle centinaia di processi per crimini di guerra in tutto il Pacifico del dopoguerra. L'UNESCO ha approvato le designazioni nel 2015, ma ha condizionato le designazioni sulla promessa di fornire una “storia completa” di questi luoghi. Eppure, sei anni dopo, il Giappone sembra non aver mantenuto questa promessa.

Mentre il Giappone ha tempo fino al 1 dicembre 2022 per attuare le raccomandazioni sul riconoscimento del lavoro forzato, ci sono poche possibilità che la designazione dell'UNESCO venga revocata, secondo un funzionario del governo sudcoreano.

Un rappresentante del ministero degli Esteri della Corea del Sud ha dichiarato: [1]

UNESCO withdraws inscriptions only when the site has been altered beyond its original state and character that made it worthy of inscription […] UNESCO has informed us that the current issue regarding the sites in Japan is not something that calls for re-evaluation of the inscription decision.

L'UNESCO ritira le iscrizioni solo quando il sito è stato alterato oltre il suo stato originale e il carattere che lo ha reso degno di iscrizione […] L'UNESCO ci ha informato che l'attuale problema riguardante i siti in Giappone non è qualcosa che richiede una rivalutazione della decisione di iscrizione.