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Sonno o morte, parte 3: pensare è il crimine

Categorie: Medio Oriente & Nord Africa, Siria, Citizen Media, Diritti umani, Guerra & conflitti, Idee, Libertà d'espressione, Protesta, The Bridge
PHOTO: Public Domain from Pixabay. [1]

Immagine: Pubblico dominio, da Pixabay.

Questo è il secondo episodio della serie “Sonno o morte”, nella quale l'attivista Sarmad Al Jilane racconta le sue esperienze in una prigione siriana. Puoi leggere qui la prima [2] [it] e la seconda [3] [it] parte.

Come si imprime il volto del tuo carnefice nella tua memoria? Tramite il suono dei suoi passi. Sembra che stiamo cadendo direttamente dal settimo cielo, quando all'improvviso ci toglie prima le catene, poi le manette. Poi ci trascina in direzione della porta tra botte e grida.

Urla e gemiti riempiono il corridoio. I sensi si confondono nelle tue orecchie, e tutti tremano di paura. Solo la morte vaga indisturbata; non teme né il carnefice, né la vittima, né la forza, né il cavo, né la ruota. Di lei non si occupano né l'interrogatorio, né i “traditori”; neanche Mohammed, che ci spreme l'ultimo rimasuglio di vita dal ventre.

Torniamo nella nostra cella. Dopo due passi le nostre gambe cedono. Gli altri ci lavano via il sangue dalle mani e dai piedi. Tutti hanno conservato un pezzettino di pane e ci accudiscono. E poi cadiamo in un sonno così profondo da farci credere morti. O peggio.

La stessa cosa ci succede nei tre giorni seguenti; ogni minimo dettaglio si ripete. Il quarto giorno una lista di nomi viene di nuovo estratta e letta ad alta voce, ma stavolta i nostri nomi non ci sono. Essere in prigione è più difficile di quanto si pensi. I giorni sono duri, le notti anche. Anche l'oscurità lo è. Anche se non ti torturano, l'attesa è una tortura in sé. Ci hanno dimenticati? Saremo bloccati qui per il resto della nostra vita? Perché non siamo stati chiamati oggi? Hanno scoperto il cellulare? Domande su domande che ti girano in testa.

Il giorno continua. Tutti i giorni sono uguali: il puzzo di sangue e marciume, i gemiti intorno a te, tutto uguale. Impari a memoria ogni graffio sul corpo degli altri ospiti e sui muri tutti uguali. Come sembra intimo tutto questo. Disgustoso.

Il quinto giorno trascorre fino a sera come al solito. La guardia apre la porta e chiama: “Sarmad, vieni con me!”. Lascio la cella e alzo le braccia davanti al mio volto, così da velarmi la testa e poter accostare le manette. Attraverso il corridoio fino ad arrivare in una stanza che mi sembra uguale alla precedente. “In ginocchio!” Eseguo l'ordine a testa bassa. Il dialogo che segue viene accompagnato dal raschiare lento di una penna sulla carta; adesso c'è un'altra persona nella stanza. “Ah, Sarmad. Hai veramente un bell'aspetto, sembri più grande, e se sei veramente il figlio di un dottore, puoi venire solo da una buona famiglia. Ma perché porti con te un'arma?”

Comincia con un'accusa per possesso illegale di armi, nell'attesa che io confessi almeno di aver preso parte alle dimostrazioni. “Quale arma? Non ne ho mai avuta una e non ho intenzione di prendermela”. Un colpo di frusta da dietro e cado a terra. Qualcuno, di sicuro una terza persona, si siede su di me e mette il suo ginocchio direttamente sotto le mie spalle. “Tratta il tuo inquirente con rispetto, se vuoi che ti rispettiamo anche noi!” Dice, cercando di mascherare il suo accento.

L'inquirente continua: “Ascolta, Sarmad, ci puoi raccontare tutto tranquillamente. Ti portiamo anche una tazza di tè. Voglio crederti, se mi dici che non avevi armi con te. Ma vedi, se ci dici che hai partecipato alle dimostrazioni, le cose si metteranno male”. La persona su di me si alza. “Sì, ho dimostrato e lo faccio ancora”. I colpi crepitano dalla mia schiena fino ai miei piedi; solo dopo un paio di minuti l'uomo si ferma.

“Va bene, Sarmad, allora adesso lo ascoltiamo insieme”. Fa partire un video in cui si vede che partecipo ad una manifestazione. “Senti, Sarmad? Non trattiamo nessuno ingiustamente. È la tua voce, e questo video è stato registrato da Al Jazeera”. Un pensiero si delinea nella mia testa: Ma se dite sempre che Al-Jazeera diffonde frottole. Quindi questa dev'essere una frottola.

La sua ultima frase contrassegna la fine dell'interrogatorio orale. Adesso comincia a parlare l'unica lingua che capisce e mi bastona senza freni, le uniche pause sono corte. Prima che la smetta sono passate alcune ore, stimo. Barcollante, torno alla mia cella.

Serve un calcio per svegliarmi. Dal primo interrogatorio mi sento come se fossi in balìa di una profonda letargia. Testa coperta e mani incatenate; mi fanno fare la stessa strada, la stessa direzione di ogni mattina. Le stesse voci riecheggiano dalle pareti. Ci inginocchiamo, il mio respiro è pesante, perché qualcosa non va con i miei seni paranasali. “Se non riesci a smetterla con questo chiasso, fai meglio a smettere di respirare! Vuoi che ti aiuti?”. Credo che sia occupato. Inspiro il più lentamente possibile ed espiro in silenzio. Tremo: dalla paura o dal freddo? Ah, che differenza c'è ormai, in un modo o nell'altro i miei denti non smettono di battere. “Va bene, Sarmad, perché non confessi e metti una fine a tutto questo? Così posso andare a casa e liberarti, e in questo modo anche tu potrai tornare a casa. Chi ti ha filmato? Come hai fatto a mandare il materiale alle emittenti televisive? C'è qualcos'altro che non sappiamo? Voglio dire, sappiamo tutto, ma vorrei sentirlo dalla tua bocca”.

Non c'è tempo per riflettere; più in fretta si risponde, meno dubbi nutrono. “Io non ho filmato niente. Avrei potuto negare tutto e dire che non avevo fatto niente. Ma Le ho già spiegato che ho partecipato alle dimostrazioni. Penso che facciano bene a questo Paese”. A un suo comando mi hanno scoperto gli occhi. “Vedi? Io ti sono superiore; devi ringraziarmi se adesso puoi vedere. Ascoltami, Sarmad, sei ancora giovane e hai un futuro intero davanti a te. Possiamo chiuderti tutte le porte davanti al naso, ma possiamo anche aprirtene migliaia. Siediti e prendi questo cellulare; entra su Facebook o su Yahoo, oppure ovunque tu invii questi video, e dimmi a chi li mandi. Facciamola finita con questa faccenda”.

In un momento del genere ti ronzano in testa tutte le frasi che gli altri prigionieri hanno detto durante i loro interrogatori. Il valore della tua vita è strettamente legato a quello delle persone intorno a te. Cominci a fare classifiche: chi deve essere tenuto al sicuro a tutti i costi, e chi può essere sacrificato, se non ci fosse altra via d'uscita? Mia madre parlava spesso di “sciagure che non si augurano nemmeno al proprio peggior nemico”. Sto vivendo una sciagura del genere adesso, e non la augurerei veramente a nessun altro.

“Uso la mia mail solo per chiacchierare. Ecco, sto facendo il login”. Dopo numerosi schiaffi sul collo per aver utilizzato la password sbagliata (ho creato un account falso per situazioni simili), il terzo tentativo riesce. Siti di incontri, chatroom e decine di forum online. Niente di tutto questo lo convince. “Mi hai preso per un maledetto principiante o cosa? Non hai per niente chiaro cosa significa “Investigatore per la Sicurezza Militare”, vero? Nessun problema”.

Mi copre gli occhi, mi ammanetta, ritira le sue cose dal tavolo e lascia la stanza. I minuti passano senza che qualcuno conti i miei respiri; nessun secondino, nessuna frusta che mi lacera la vita. Poi si apre la porta. “In ginocchio!” La voce è diversa. Mi stringe in una ruota e comincia a frustarmi. Comincia dai miei piedi e va verso l'alto. Urlo senza controllo. Lui continua, si ferma solo in qualche occasione per versarmi addosso un getto d'acqua ghiacciata. Continua così per ore. Nel frattempo riesco a sentirlo sorbirsi una bevanda che si è preparato. Inoltre c'è odore di sigarette; e siccome nella stanza in cui ci troviamo purtroppo è vietato fumare, spegne i mozziconi sulla mia schiena.

Sono sfinito e mi lascia andare, a condizione che io riesca a reggermi in piedi senza aiuto. Dopo svariati tentativi ci riesco, e mi ritrascino nella mia cella. Lì perdo subito i sensi.

Questo è solo un aneddoto di un sistema orripilante, nel quale il pensiero è un crimine e i pensatori sono peccatori che devono essere messi in prigione. È un sistema che ci vuole far smettere di pensare alla libertà; una libertà odiata dalla dittatura, perché rivela la verità.

“Sarmad… Sarmad, non puoi dormire tutto il giorno, devi alzarti e lavarti”. La voce appartiene ad Abdel Rahman. A quanto pare, ho dormito fino alla sera dopo, a parte il momento in cui, come al solito, è stata letta la lista di nomi. “Piano, piano, o ti portano da un'altra parte o ti liberano, come succede a tutti qui”, dice con una risata.

Abdel Rahman, un giovane uomo di Tabqa, è uno dei pochi intellettuali qui. La sua risata non lascia mai il suo viso quando parla con gli altri. Prima lavorava in un centro culturale a Raqqa, e durante il suo impiego ha avuto la possibilità di leggere molti libri. Durante una perquisizione in casa sua hanno scoperto molti libri proibiti e un paio di immagini dove lui partecipava alle dimostrazioni. Abbastanza per arrestarlo.

Il giorno seguente sopraggiungono un paio di prigionieri nuovi. Tutti parlano di un certo Taher, che è stato messo in una cella singola vicino alla nostra. “Dovete sparargli in una gamba per tenerlo fermo. Si è anche tagliato la carotide con un coltello e vi ha reso la vita ancora più difficile”, racconta uno dei nuovi arrivati, visibilmente impressionato dalla forza di Taher. Continua: “È grande e grosso. Hanno trovato pane per i loro denti”.

Passano alcune ore prima che venga chiamato il nome di Taher. Ci raccogliamo il più silenziosamente possibile intorno al minuscolo buco nella porta, per per riuscire a dargli uno sguardo. Porta una ginocchiera sulle gambe per tenere insieme le ossa rovinate dalla pallottola, e al collo ha una cucitura. Le guardie hanno paura di lui!

Lo trascinano fuori dal corridoio. Rimaniamo fermi in assoluto silenzio, nella speranza di riuscire a sentire tutto quello che c'era da sentire. Niente! Sembra che lo abbiano portato nella sala dell'interrogatorio più distante. Il tempo passa senza che nessuno proferisca parola. Tutti tornano lenti a ciò di cui si stavano occupando, cioè niente. Si ha un'altra scelta, quando non c'è niente da fare oltre a stare seduti e ammazzare il tempo?

La porta che dà sul corridoio si apre. I passi della guardia si avvicinano. La nostra cella si apre e spingono dentro Taher. Poi la porta si richiude. Aspettiamo che la guardia si allontani e laviamo le ferite di Taher, dalla testa ai piedi. Se fossimo cani da qualche parte in queste terre lontane, adesso saremmo seduti intorno a un falò e verremmo viziati, perfino protetti. Ma qui, come persona, aspetti il tuo turno; o ti preoccupi delle loro ferite, o gli altri si preoccupano delle tue.

È passata appena un'ora; Taher ha già ripreso conoscenza, e dopo alcuni minuti riesce anche a stare in piedi. Poi ha messo la mano sulla fessura della porta! È più una finestra su una tomba, in realtà; solo la guardia e i suoi sgherri la usano. Finora nessuno di noi aveva osato avvicinarsi così tanto.

“Ehi, tu! Uomo degli interrogatori! Ero un ragazzo abbastanza indomabile, e ho fatto girare la testa a molte donne. Può essere che anche tua sorella fosse tra loro? Per questo sei così arrabbiato con me? Oppure le ho suonate così tanto al tuo culo che vuoi il mio sangue da quel momento? Se avessi detto qualcosa, avremmo potuto regolare il tutto in pace. Non c'è nessun motivo di addossarti tutta questa rabbia”.

Taher urla e ride. Riuscivo a sentire i cuori degli altri battere nei loro petti, e anche il mio, di questo ero sicuro. “Viviamo una volta sola, e abbiamo un solo Dio. Sapevamo dall'inizio che saremmo potuti morire. Quindi almeno vi incutiamo un timore terribile. O credete che questi assassini intorno a noi uccidano le altre persone per questo motivo, perché abbiamo paura di loro? Per niente: loro hanno molta più paura di noi di quanta noi ne abbiamo di loro”.

Parla a voce alta apposta, in modo che le guardie ci possano sentire. Tre di loro sfondano la porta e irrompono nella cella. Prendono Taher nel modo più selvaggio possibile e lo trascinano verso l'esterno.

È l'ultima volta che vedo Taher nella Divisione di Sicurezza Militare di Deir ez-Zor.