Questo articolo di Dante Liano [es, come tutti i link successivi, salvo diversa segnalazione], scritto per il giornale Prensa Comunitaria è stato editato e ripubblicato su Global Voices grazie ad un accordo tra i due mezzi di comunicazione.
Uno stupore antico mi fa ricadere nella lettura di testi che invece dovrei evitare. Molte volte ho frenato l’impulso di scrivere una lettera al direttore di qualche periodico, per varie ragioni: una di queste è che spesso queste lettere vengono trattate con arroganza. Uno di questi testi evitabili [it], che cerca di realizzare un’analisi psicologica del giocatore argentino Lionel Messi, è stato pubblicato da un importante giornale italiano. Il testo mi interessa perché il tema è linguistico e perché tratta un argomento che da sempre mi tocca combattere. Nell’incipit, dice:
Chiunque abbia conversato con Messi sa che non parla spagnolo, ma argentino, anzi rosarino. Il suo aggettivo preferito è «espectacular», che però lui pronuncia petacular, mangiandosi tre lettere. Anziché «trabajar» dice laburar. A chi gli chiede notizie del primogenito Thiago risponde, tutto fiero: «Le gusta el fulbo », che significa «gli piace il calcio» ma non in castigliano, in un dialetto sudamericano.
Parafrasando lo scrittore Cervantes [it]: “Ci siamo scontrati con l’ignoranza, Sancio.” Ignoranza diffusa anche a livelli “colti”, perché fino a non molto tempo fa le case editrici italiane scrivevano, nella traduzione di autori argentini, che il testo era stato “tradotto dall’argentino”, come se esistesse questa lingua fantasma. L’originalità del nostro giornalista consiste nell’aver inventato il “dialetto sudamericano”, una contraddizione appartenente alla letteratura fantasy. In effetti, la premessa per parlare di “dialetto” è che si tratti di una varietà di lingua, quindi in Sud America dovrebbe esistere un dialetto per ogni Paese: il colombiano, il venezuelano, il peruviano ecc… Perciò, Messi non potrebbe parlare in “sudamericano”, semplicemente perché tale astrazione non esiste.
Ricordo che, nella mia già lontana infanzia, noi abitanti di Chimaltenango, in Guatemala, ci prendevamo gioco dei nostri cugini di San Andrés Itzapa, paese a quattro chilometri dalla capitale del dipartimento. Questo perché allungavano le vocali, pigri com’erano nel parlare, dicendo “Buooongiooorno, zia Tereeeeeesa”. Esiste forse un dialetto “itzapeco” e non ne sapevo niente? Un’altra perla del nostro giornalista, analizzatore delle profondità dell’anima del linguaggio, è che persiste nell’errore segnalando che gli argentini chiamano Messi “Lío”, anziché “Leo”. Basterebbe andare sul sito del Futbol Club Barcelona, per accorgersi che il giocatore si chiama “Lionel” e che quindi “Lío” è il naturale diminutivo del suo nome, proprio come “San” lo è di “Santo”. Basterebbe conoscere un briciolo di spagnolo.
Ma torniamo all’affermazione che il nostro eroe parli “argentino”, o meglio “rosarino”. Vero è che la lingua spagnola somiglia al Rio delle Amazzoni, un’immensa corrente con molti affluenti e varie biforcazioni. In principio, fu la lingua del regno di Castiglia, della Regina Isabella che sposò Ferdinando d’Aragona. Questa lingua appartenente alla terra dei castelli eretti da signori feudali cattolici e guerrieri, che parlavano con parole rudi e scarne, si espanse non solo in America, con le sue immense distanze, ma anche nell’Europa delle interminabili guerre tribali (che ancora continuano al giorno d’oggi). Per questo, prese il nome di “spagnolo”, perché era la lingua di un impero nato in Spagna e, divenuto moneta di scambio per le comunicazioni in tutto il mondo, si arricchì e subì variazioni nei suoi interminabili viaggi. Contemporaneamente, conservò tratti propri in ogni regione: non si parla allo stesso modo in Galizia, Asturia o Andalusia. Ma non per questo smette di essere “spagnolo”. Così come non si parla allo stesso modo in Messico, in Colombia e in Argentina, ma non per questo smette di essere spagnolo. Gli abitanti di Buenos Aires hanno il proprio accento; quelli di rosario ne hanno un altro, molto forte, ma parlano la stessa lingua. Succede lo stesso con gli abitanti di Milano e Roma, quando parlano italiano.
Gli esempi a cui fa riferimento il giornalista appartengono alla linguistica più ingenua, quella che serve agli aragonesi per prendere in giro i vicini che parlano in maniera diversa. Ci informa che Messi pronuncia “pectacular” anziché “espectacular”, che dice “laburar” anziché “trabajar” e che pronuncia “fúlbo” quando vuole dire “fútbol”. È molto arrogante spiegare al colto e al profano che ognuno di noi possiede una maniera personale di pronunciare la lingua? E che dalla pronuncia di un solo individuo non è possibile astrarre una regola generale? Ognuno di questi esempi ha la sua spiegazione, in spagnolo, ma oso proporre solo la più semplice: lo scarso udito del nostro giornalista. Sarebbe stato più credibile se avesse scritto che Messi dice ‘ehpettacular,” o “fúbbo”, tratti fonetici che si ritrovano in lungo e in largo nel mondo ispanico. Ma sarebbe troppo da chiedere ad un testo il cui unico proposito è quello di riempire uno spazio domenicale.
Come spesso succede, forse la spiegazione non sta nel testo che appare nel giornale, ma in ciò che il testo stesso nasconde. Cerchiamo di girare la frittata: cosa accadrebbe se un giornalista “sudamericano” dicesse che Umberto Eco [it] parlava in “bolognese”, Pier Paolo Pasolini [it] in “friulano”, Alberto Moravia [it] in “romano” quando pensavano di parlare italiano? Immagino che a nessuno verrebbe in mente di proferire un’osservazione così audace. Al contrario, rilasciare una serie di affermazioni strampalate sul modo di parlare dei “sudamericani”, concentrandosi su un “balbuziente” Lionel Messi, non riporta gli americani alla condizione coloniale di bambini, quella giustificazione ideologica che ha permesso la loro sottomissione, posto che non avessero cultura, che fossero una tabula rasa, menti candide su cui l’Occidente potesse scrivere i fondamenti della civiltà? Forse, Sancio, non ci siamo scontrati con l’ignoranza, ma con una cosa peggiore.