
Illustrazione di Zena El Abdalla. Usata previa autorizzazione.
Questo post di Giulia Crisci è stato pubblicato in inglese su UntoldMag [en, come i link seguenti, salvo dove diversamente indicato] il 13 settembre 2024. Questa versione editata ripubblicata su Global Voices è parte di un accordo di condivisione dei contenuti.
Nel chiassoso centro di Algeri, in un cafè vicino alla Grande Poste, Medjeda Zouine e Nadjoua Rahem, giornaliste di Radio Voix de Femmes (Voce delle donne) [ar, fr], la prima web-radio in Algeria, mi raccontano ciò che fanno ogni giorno. Attiva dal 1995, Radio Voix de Femmes ha la sua sede alla Maison de la Presse, un luogo simbolico della resistenza dei giornalisti durante la guerra civile algerina [it], anche nota come il “Decénnie Noire” (decennio nero). Zouine e Rahem registrano nello studio della Maison de la Presse e trasmettono su YouTube. Il nome del progetto ne riassume l'obiettivo: prendere quanto più spazio possibile per raccontare le storie delle donne in Algeria.
L'incontro con Medjeda e Nadjoua è il primo di quello che sarà un mese di ricerca ad Algeri, passato ad ascoltare le voci che ne popolano le onde radio e gli spazi sul web. Sono ospite in una casa che un tempo apparteneva a Mohamed Khadda (1930–1991) [it], pittore e militante del movimento indipendentista, uno spazio che si sta trasformando in centro culturale e residenza artistica della galleria Rhizome [fr]. Sulle pareti sono ancora appesi alcuni dei vecchi poster di Khadda, che promuovono conferenze e mostre come il Giorno della salvaguardia dell'oralità e il Simposio internazionale sull'oralità africana.

Uno dei poster in casa di Mohamed Khadda, a promozione di un festival per la salvaguardia dell'oralità. Usato previa autorizzazione.
I poster mi fanno pensare a Ici la voix de l’Algérie, il testo di Frantz Fanon sul ruolo decisivo giocato da una particolare forma di oralità, quella della radio, durante la rivoluzione. Durante gli anni del colonialismo, Radio-Alger era una piattaforma attraverso la quale “i francesi parlavano ai francesi”. La popolazione algerina, nel suo rigetto e disinteresse per la voce del colonizzatore, non ebbe apparecchiature radiofoniche fino al 1955–56.
Poi, nel 1956, la svolta: il 16 dicembre, con l'annuncio “Ecco la Radio dell'Algeria libera e combattente”, la radio clandestina iniziò a trasmettere al popolo algerino. In meno di 20 giorni tutte le radio andarono esaurite. Ora si poteva finalmente ascoltare “la voce dell'Algeria libera e combattente”. Trasmetteva da un luogo non meglio precisato, avvalendosi della complicità di Egitto, Siria, e una rete di paesi arabi che faceva affidamento sulle radio frequenze, per aggirare il sabotaggio delle onde radio attuato dalla potenza coloniale.
Discontinua e spesso interrotta, la radio riuscì a sprigionare nuovi linguaggi, iniziando finalmente a rendere reale e possibile l'idea di una nazione indipendente.
Dalle onde radio ai podcast
Oggi le disposizioni del governo algerino sulla radiodiffusione, tanto tramite onde radio quanto sul web, sono stringenti. Le autorizzazioni sono così difficili da ottenere che il numero delle stazioni private si può contare sulle dita di una mano e la gente parla comunemente della radio come di un monopolio di stato.
Eppure ogni settimana nascono nuove produzioni radiofoniche, che aggirano gli ostacoli posti dal governo grazie ai podcast e ai social media. Tutto ciò che serve è uno smartphone per registrare e da lì ognuno può lanciare una nuova serie su Instagram, YouTube, Soundcloud o Spotify.
Su Instagram, per esempio, le autrici di Radio Voix de Femme, protagoniste di un vasto, plurale e vibrante movimento femminista, hanno lanciato di recente Laha_podcast [ar], un programma che esula dal loro formato radiofonico canonico. Parlano dei progetti delle artiste algerine e dei loro successi, ma anche della violenza e della forte discriminazione che le donne affrontano, sancita dal Codice algerino della famiglia, che tuttora stipula di fatto la subordinazione delle donne ai padri, fratelli e mariti. Per fare un esempio, in caso di divorzio o eredità, le donne sono penalizzate rispetto alla loro controparte maschile.
“La voce delle donne è una rivoluzione, come lo è quella di tutti i popoli oppressi”, mi dice Besma Ait, autrice del podcast Thawra (rivoluzione) [fr].”La voce delle donne è una rivoluzione” (صوت المرأة ثورة – sawt el mar'a thawra) è uno slogan del movimento femminista egiziano, gridato nelle strade durante la Primavera araba. È un gioco di parole, realizzato sostituendo una sola lettera di un vecchio adagio della tradizionale orale canonica islamica: “La voce delle donne è motivo di vergogna” (صوت المرأة عورة – sawt el mar'a ‘awra).
Il podcast Thawra ha fatto il suo debutto a febbraio 2024, sulla spinta della necessità di dare spazio alle storie delle attiviste femministe. Le storie si dipanano attraverso lunghe conversazioni, rimuovendo il fattore tempo e la fretta.
L'ideatrice del podcast, Besma, fa parte di una nuova generazione di femministe che stanno provando a creare continuità tra le lotte e a mantenere aperto il dialogo tra donne che hanno vissuto eventi molto diversi: dalla violenza traumatica dei terroristi islamici ai cambiamenti in peggio del Codice di famiglia, alla frangia femminista che ha marciato ogni venerdì per poco più di un anno durante l’Hirak [it], il movimento del 2019 che ha portato avanti richieste democratiche e che dopo avere ottenuto le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika [it] è stato colpito senza preavviso da arresti e violenza, fino ad essere disperso dal governo nel marzo 2020, con l'arrivo della pandemia.
Besma mi comunica l'importanza di questa genealogia di lotte, che le arriva prima di tutto dalle donne della sua famiglia. Sua nonna era una mujaheddine (un termine che il FLN usava per i suoi combattenti, a significare “colui o colei che lotta per una causa sacra”), parte del Fronte di liberazione nazionale che operava in Francia. “La storia dell'esilio si intreccia con quella della prima lotta anti-coloniale condotta in territorio nemico”, aggiunge.
La seguo mentre tesse la biografia della nonna, che scappò dalla prigione femminile della Petite Roquette a Parigi, per passare poi alle storie raccontate negli episodi del podcast. Il primo episodio racconta la storia di Fadila Boumendjel Chitour, un'endocrinologa, attivista per i diritti umani, e co-fondatrice di Réseau Wassila [ar, fr], un'importante rete di supporto per donne vittime di violenza che ha sede ad Algeri.
Madame Chitour è arrivata a una consapevolezza femminista attraverso la medicina sociale, trattando gli effetti visibili e invisibili di violenza e tortura. Anche Saadia Gacem, un'altra intervistata, fa parte di Réseau Wassila, ma è specialmente impegnata nella ricerca sul Codice di famiglia e sul trattamento che le donne ricevono nei tribunali algerini. Saadia è anche parte dell'iniziativa Archives des luttes des femmes en Algerie (Archivio delle lotte delle donne in Algeria) [fr], un lavoro collettivo prezioso, poichè la storia di un movimento tanto potente è ancora da scrivere. Lo stesso Thawra si inserisce nel medesimo solco, come una forma d'arte che può essere descritta come storia orale.
‘Il suono è il futuro della lotta’
Besma mi saluta per andare a prendere parte al programma di creazione femminista organizzato dal Journal Féministe Algérien [fr], di cui mi parleranno alcuni giorni dopo la fondatrice Amel Hadjadj e la formatrice Khadidja Markemal [fr].
Khadidja è un'artista del suono raffinata e brillante e nel suo lavoro riesce a rendere in maniera vivida il panorama sonoro di una strada o di un quartiere. Al termine del nostro incontro, mi passa, su una chiavetta USB, Sisters with Transistors, un film sulle pioniere della sperimentazione sonora e della musica elettronica. Alcune, come Daphne Oram o Delia Derbyshire, hanno fatto la storia della radio.

Screenshot dal film “Sisters with transistors.” Fair use.
Uno dei punti ricorrenti nelle nostre conversazioni è la mancanza nel mondo dell'audiovisivo di figure tecniche femminili che possano creare la propria narrazione in maniera indipendente. Il programma di formazione sulla creazione di contenuti femministi del giornale Journal Féministe Algérien ha preso il via nel 2020 in risposta a questa lacuna, rivolto ad attiviste provenienti da diverse realtà, gruppi e collettivi algerini.
Nel quartier generale del quotidiano, un ampio spazio sulla baia di Algeri, Amel Hadjadj mi mostra una stanza che può trasformarsi all'occorrenza in uno studio di registrazione, insonorizzato grazie a dei materassi. Tutto il materiale, conservato in un armadio, è a disposizione non solo dello staff editoriale, ma anche dei membri del pubblico che ne avessero bisogno per i loro progetti.
“Il suono è il futuro delle lotte”, mi dice Amel, mentre conversiamo. Trova nella discrezione del registratore le condizioni perfette per catturare le parole delle donne, spesso esitanti di fronte a una telecamera. Il suono, che pure mantiene la soggettività di ogni voce, protegge le persone a rischio, per esempio chi fa parte della comunità LGBTQ+, così che non vengano riconosciute.
“Inoltre”, continua, “il podcast è un formato che permette alle donne di continuare a informarsi e ascoltare altre donne mentre si dividono tra lavori domestici e il prendersi cura dei famigliari. Sedersi di fronte a uno schermo è un lusso che poche possono permettersi”.
Al termine di questa edizione, i podcast saranno co-firmati e “apparterranno” a tutte le realtà femministe che ne hanno preso parte, tra le quali il giovanissimo gruppo Algerian Feminists. Partito come un profilo Instagram [ar] creato da Ouarda Souidi nel 2019, è poi diventato un collettivo a tutti gli effetti. Le Algerian Feminists vogliono contribuire a una nuova generazione di lotte femministe, per reagire all'invisibilità delle donne nella società, e alle iniziative del movimento femminista. Pubblicano bollettini mensili su azioni intraprese nel paese, parlando a quante più donne possibile con contenuti realizzati per la maggior parte in Darija [en] algerino.
Di recente hanno pubblicato il loro primo podcast [ar] dedicato al tema delle mestruazioni, che è un taboo in Algeria. L'episodio raccoglie dieci testimonianze che si fondono in un racconto polifonico del punto di svolta rappresentato dalle mestruazioni nella vita di una ragazza, una soglia spesso varcata senza esser minimamente preparate.
Il sangue sulle cosce, la prima spiegazione da parte delle madri o il primo tentativo di usare un assorbente interno, micro-memorie a cui segue una consapevolezza: il menarca è un rito di passaggio. Per alcune questo è il biglietto d'ingresso al circolo delle donne della famiglia che si riunisce nel cortile, alle loro confidenze, alla possibilità di rasarsi insieme, ma per altre può anche significare l'inizio di imposizioni sull'abbigliamento, un nuovo look e nuove norme sociali. Una delle voci rivela: “Mia madre mi disse di nasconderlo a mio padre, o non mi avrebbe più fatto giocare con i miei cugini”.
Ascoltare il reale in maniera nuova
Ouardiami mi traduce accuratamente queste parole in una serie di messaggi vocali e poi aggiunge: “Hai già ascoltato Femmes sérieuses, travailleuses, non fumeuses?” [fr].
Si tratta di un audio-documentario di Sonia Ahnou, un'artista e regista che al momento vive in Francia. Il documentario fa immergere l'ascoltatore nella vita di una giovane donna che decide di vivere da sola ad Algeri. Il titolo riprende ironicamente una formula ricorrente negli annunci immobiliari.
“Cosa penseranno i vicini di me, della ragazza che vive da sola al terzo piano? Sono andata a chiderglielo con il microfono in mano”. La storia comincia così, ricollegandosi a molte altre esperienze che narrano la difficoltà di essere indipendenti persino nella capitale.
Se l'oppressione è sistemica, diventa velocemente un business. Le intervistate denunciano un continuo rifiuto di affittare, le restrizioni abusive loro imposte, e persino affitti maggiorati per le donne single. “La segregazione si porta avanti anche così”, conclude una di loro, con voce ferma.
Sonia è anche passata attraverso una forte rete di realtà militanti che costituiscono la ricchezza della scena artistica algerina. Un nodo fondamentale è Habiba Djahanine, regista e poetessa femminista, co-fondatrice del collettivo Cinéma-Mémoire. Dal 2007, prima a Bejaia e poi a Timimoun, nel deserto algerino, il collettivo accompagna i giovani in un anno di formazione nella realizzazione di documentari.
Ogni persona che ho incontrato ha una storia che la collega ad Habiba e ai suoi ateliers, spesso un punto di svolta nel loro percorso.
Al termine della mia residenza, ho invitato Habiba, che era di passaggio da Algeri, a condividere alcune delle creazioni sonore del suo vasto archivio. Al momento stiamo progettando una sessione d'ascolto collettiva con un piccolo gruppo di donne che hanno un progetto sonoro o che ne stanno mettendo in piedi uno.
Che cosa sono i femminismi se non una serie di pratiche per spezzare il silenzio, per ascoltare se stesse e le altre?
Così, al termine del pomeriggio, sedute sul tappeto di Mon Autre École (la mia altra scuola), un luogo importante per la formazione e la creazione artistica, ci immergiamo nell'ascolto di “Mon peuple, les femmes” (La mia gente, le donne). L'autrice, Sara, cuce assieme frammenti di conversazioni intime tra femministe — “Tu perché sei una femminista? Non vedo perché non dovrei esserlo!” — o di una madre che discute con sua figlia la scelta di vivere da sola, e ancora, testimonianze di azioni contro il femminicidio, e a supporto di chi ha subito violenza.
Per liberare il mondo è necessario l'anonimato. È necessario osare raccontare scelte radicali, come quella di non avere più relazioni intime con gli uomini.
Nel 2021, il collettivo Cinéma-mémoire [fr] ha abbandonato l'elemento visuale per concentrarsi completamente sul paesaggio sonoro.
Ascoltiamo le loro opere, che, con grande varietà di temi e scelte artistiche, ci trasporta all'oasi di Timimoun. Quelle di Assia Khemici e Lila Bouchenaf ci fanno varcare la soglia degli spazi delle donne, le zone liminali tra il dentro e il fuori, tra lo spazio domestico e quello collettivo. Senza nemmeno una traccia di esoticismo o voyerismo, nessun frame ci separa dal paesaggio, ne facciamo parte.
In tutte le creazioni che ho ascoltato finora, il potere di queste voci e suoni risuona per mettere in discussione le narrazioni egemoniche di un mondo puramente oculare, che lascia fuori tutto ciò che non può essere catturato visualmente. Allora il microfono diventa la possibilità di spezzare un ordine imposto, di contribuire a una riscrittura polifonica, diventando ancora una volta il soggetto della propria storia. Come ci dice Habiba, dopo tutto, tutto ciò che facciamo è un continuo tentativo di trasformare il reale per poterlo guardare o ascoltare diversamente.