- Global Voices in Italiano - https://it.globalvoices.org -

Moderare i contenuti online dannosi in Sudan

Categorie: Africa sub-sahariana, Nord Sudan, Citizen Media, Donne & Genere, Giovani, Governance, Legge, Libertà d'espressione, Media & Giornalismi, Politica, Protesta, Sviluppo, Tecnologia, Advox

Una donna al lavoro in un ufficio dell'Università di scienze e tecnologia del Sudan. Foto [1] dell'utente Muhammadsalah80 su Wikimedia (CC BY-SA 4.0 [2]).

L'avvento di internet ha segnato un cambiamento radicale nel modo in cui le persone pubblicano e condividono idee, superando le barriere e rimuovendo gli intermediari. Ma insieme a questo cambiamento arriva anche l'onere di regolare e stabilire nuove politiche per la moderazione dei contenuti.

In Sudan, un Paese dove solo il 31% della popolazione ha accesso a Internet [3] [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione], le piattaforme online faticano ad applicare le linee guida e le regole per monitorare i contenuti considerati dannosi, come i discorsi di incitamento all'odio e la disinformazione.

Al tempo stesso, le compagnie tecnologiche di base negli Stati Uniti, come Facebook, Instagram e Twitter spesso non aderiscono alle regole già stabilite. In molti casi queste piattaforme statunitensi non riescono affatto ad affrontare i contenuti dannosi.

Doxxing, furti di identità e disinformazione

A maggio Lugain Mohamed, attivista sudanese per i diritti delle donne, ha segnalato un account attivo su Instagram che pubblica foto di donne sudanesi senza il loro consenso [4]. Questo costituisce una violazione delle linee guida della comunità [5] di Instagram, [5] che non permettono agli utenti di condividere foto che non hanno scattato e che non hanno il diritto di condividere.

L'attivista ha confermato a Global Voices in un'intervista via email che la piattaforma, di proprietà di Facebook, non ha ancora agito in alcun modo e l'account è ancora attivo perché Instagram ha deciso che l'account non viola le sue regole. Mohamed ha aggiunto che, a causa di questa esperienza, lei stessa a cominciato ad auto-censurare i contenuti che condivide sui social media:

Having been threatened by the admin of the page to share the rest of my pictures if I continued asking people to report the page made me a bit hesitant about continuing to campaign against such pages, as it threatened my personal safety.

Ricevere dall'admin della pagina minacce che avrebbe condiviso il resto delle mie foto se avessi continuato a chiedere alle persone di segnalarlo, mi ha fatta esitare un po’ dal proseguire la mia campagna contro queste pagine, perché era minacciata la mia sicurezza.

La pratica di condividere le foto di donne senza il loro consenso non è nuova in Sudan.

Nel 2016, più di 15 attiviste subirono doxxing su una pagina Facebook chiamata “Donne sudanesi contro lo hijab. [6] [ar]” Il doxxing è una pratica [7] che consiste nel pubblicare informazioni personali di qualcuno senza il loro consenso, con l'intenzione di minacciare o intimidire. Le foto prese dai social media delle attiviste erano state pubblicate senza il loro consenso insieme a citazioni inventate contro il velo e la religione. La pagina è stata rimossa da Facebook dopo che molte persone l'hanno segnalata per violazione degli standard della comunità.

Durante la rivoluzione sudanese cominciata nel dicembre 2019, Twitter sembra essere stato lo spazio ideale per i furti di identità. Agenti malevoli creavano account rubando le identità di politici, ministri, giornalisti e attivisti. Il giornalista Wasil Ali [8] ha lanciato una campagna per chiedere al pubblico di segnalare questi account [9] [ar].

Di conseguenza alcuni account sono stati bloccati, mentre altri sono ancora attivi. In un'intervista via mail con Global Voices, Ali ha scritto: 

…[F]ake accounts are, for the most part, used to harvest followers but unfortunately, a good number of them are used to sow division by spreading misinformation that has the potential to trigger unrest or even violence. Also in the simplest of terms, it would sow discord among Sudanese whether political or even tribal.

Gli account falsi sono usati perlopiù per raccogliere follower, ma sfortunatamente un buon numero di questi viene usato per seminare discordia diffondendo disinformazione che può potenzialmente scatenare disordini o addirittura violenza. Può anche, più semplicemente, scatenare discordia tra i sudanesi per ragioni politiche o tribali.

Nel giugno 2019, la milizia sostenuta dal governo nota come Rapid Support Forces (RSF) represse con violenza i manifestanti che protestavano contro il governo militare a Khartoum, in quello che in seguito è stato chiamato il “massacro di Khartoum” [10]Human Rights Watch [11] e Amnesty International [12] pubblicarono rapporti in cui fornivano prove dettagliate di una serie di violazioni dei diritti umani commesse dalla milizia RSF.

Eppure pochi giorni dopo le violenze, un'azienda egiziana chiamata New Waves lanciò [13] un'influente campagna sui social media — tra cui Facebook e Instagram — che mirava a presentare e vendere un'immagine positiva della milizia RSF e dei suoi leader.

Ad oggi Facebook non ha ancora esaudito le numerose richieste di rimozione dei contenuti della RSF [14] [it], con la motivazione che il suo leader, Mohamed Dagalo [15], che ricopre anche la carica di vicecapo del Consiglio Sovrano del Sudan, è una figura governativa attualmente in carica, anche se l'azienda in passato ha rimosso l'account di un funzionario del governo del Myanmar, anch'egli accusato di crimini di guerra.

Le piattaforme stanno facendo abbastanza? 

In alcuni casi, contattare direttamente le piattaforme aiuta a eliminare contenuti nocivi, come nel caso di un falso account di Instagram [16] diventato virale durante la rivoluzione. L'account millantava di fornire pasti alle persone sudanesi e diffondeva disinformazione. Instagram ha poi rimosso l'account, subito dopo essere stata contattata da The Atlantic, una testata statunitense.

Nel luglio 2018, YouTube chiuse il canale Zoal Cafe, senza rilasciare dichiarazioni a riguardo [17] [ar], dopo che gli utenti segnalarono un vecchio episodio pubblicato in risposta a un programma televisivo della TV kuwaitiana che prendeva in giro il popolo sudanese [18] [ar]. La risposta a sua volta era stata considerata da alcuni razzista. Il canale rimase chiuso per soli tre mesi [19] [ar] prima di essere ripristinato [20] [ar]

Anche Facebook ha adottato misure per implementare la sua politica sul Comportamento non autentico [21] [it] in merito al Sudan. L'azienda definisce “comportamento non autentico” l'atto di “adottare comportamenti mirati a consentire altre violazioni ai sensi dei nostri Standard della community” attraverso tecniche come l'uso di account falsi e bot.

Nell'ottobre 2019 venne rimossa da Facebook una rete di account falsi legati al finanziere russo Yevgeniy Prigozhin [22], successivamente colpito da sanzioni da parte del Dipartimento di Stato statunitense per il suo ruolo nel fornire “sostegno alla sopravvivenza di regimi autoritari, come quello dell'ex Presidente sudanese Omar al-Bashir e allo sfruttamento di risorse naturali [23]”. Stando alla dichiarazione del social network “17 account Facebook, 18 pagine, 3 gruppi e sei account di Instagram creati in Russia e focalizzati soprattutto sul Sudan [24]’’ vennero rimossi.

Tuttavia gli attivisti sostengono che le piattaforme non stiano facendo abbastanza.

Lugain Mohamed dice di essere riuscita a far rimuovere la propria foto, ma non quelle di altre perché le politiche di Instagram richiedono che “i proprietari delle foto segnalino loro stessi”. L'attivista dice: 

This is problematic in many ways, as these accounts are growing in number and followers day by day and they’re making a profit out of taking women’s pictures by advertising for different companies.

Questo è problematico sotto molti aspetti, perché questi account crescono in numero e numero di follower ogni giorno, e guadagnano soldi facendo pubblicità a varie aziende usando le foto di queste donne.

Per quanto riguarda la risposta di Twitter alla campagna di Ali per la segnalazione degli account che impersonano altri individui, Ali ci ha scritto:

Twitter is extremely slow on cracking down on these accounts & sometimes unwilling to take them down (like with an account impersonating me & tweeting fake news). Twitter simply refers you to their policy on these accounts. 

Twitter è estremamente lento nel bloccare questi account e a volte non vogliono rimuoverli (per esempio con un account che impersonava me e twittava notizie false). Twitter semplicemente ti rimanda alle loro politiche su questi account.

Twitter non fornisce ancora l'opzione della verifica tramite numero di telefono per i suoi utenti in Sudan, il che aggiunge un'altro ostacolo alla verifica degli account, fornendo spazio di manovra ad altri account falsi. A giugno è partita una campagna online [25] per chiedere a Twitter di offrire quest'opzione. Nel marzo 2018, Jack Dorsey, amministratore delegato di Twitter, aveva pubblicato un tweet sulla questione [26], ma l'azienda non ha ancora cambiato la sua posizione. 

Mancanza di protezioni legali

In aggiunta all'inazione delle piattaforme, il Sudan manca anche di misure legali solide che proteggano gli utenti del web. 

Un certo numero di norme esistenti in Sudan offre protezione da alcuni tipi di contenuti nocivi. Ad esempio la legge del 2007 sui crimini informatici, che proibisce la diffamazione e sancisce l'inviolabilità della vita privata [27], può essere usata contro chi diffonde foto altrui senza il loro consenso.

La legge sui crimini informatici del 2018, la cui bozza finale non è stata condivisa con il pubblico, criminalizza l'uso di “Internet o qualunque altro mezzo di comunicazione o informazione per incitare all'odio contro le persone straniere, causando discriminazione e ostilità [28]”. Il parlamento del regime ora deposto emendò la bozza di legge nel 2018, poi nuovamente emendata nel 2020 dal consiglio di transizione incaricato di governare, ma il Ministero della Giustizia non ha ancora divulgato la versione completa finale.

In più, l'articolo 87 dell'Atto sulle poste e le telecomunicazioni punisce chi invia contenuti minacciosi [29] [ar].

La regolamentazione di questi contenuti costituisce una sfida e può talvolta diventare una minaccia alla libertà d'espressione, in particolare in un Paese con una lunga storia di abusi dei diritti umani.

Il Sudan ha diverse leggi piuttosto vaghe che criminalizzano la libera espressione così come intesa negli standard internazionali dei diritti umani. Secondo il rapporto Freedom on the Net (libertà su Internet) del 2019 [30], il governo “riconosce apertamente di bloccare e filtrare siti che considera “immorali” e “blasfemi” come i siti pornografici”.

Nel gennaio 2019 la procura di Stato emanò mandati d'arresto contro 38 giornalisti e attivisti, accusandoli di aver diffuso notizie false [31], un termine vagamente descritto nella legge sui crimini informatici. 

Affrontare adeguatamente i contenuti dannosi in Sudan richiede un'azione collettiva.

Le aziende di tecnologie e le piattaforme online devono aderire alle politiche di regolamentazione dei contenuti e renderle trasparenti e visibili agli utenti. Devono ascoltare gli attivisti locali e prendere in considerazione le loro preoccupazioni nell'implementare le politiche.

L'attuale amministrazione del Sudan deve emendare le leggi esistenti per proteggere gli utenti dal  doxxing e dai discorsi di odio, senza mettere ulteriormente a rischio i diritti e le libertà fondamentali degli utenti.


Quest'articolo è parte di una serie intitolata “Matrice dell'identità: regolamentazione sulle piattaforme delle minacce online alla libertà di espressione in Africa.” Questi pezzi indagano i discorsi d'odio identitari online, le discriminazioni basate sulla lingua o l'origine geografica, la disinformazione e l'intimidazione (in particolare contro attiviste e giornaliste) prevalenti negli spazi digitali di sette Paesi africani: Algeria, Camerun, Etiopia, Nigeria, Sudan, Tunisia e Uganda. Il progetto è finanziato da Africa Digital Rights Fund  [32]dell'ente Collaboration on International ICT Policy for East and Southern Africa (CIPESA [33]).