Il presente articolo è stato scritto da Ilan Pappé [it, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione], storico, politologo ed ex politico israeliano, attualmente professore al College of Social Sciences and International Studies dell'Università di Exeter. Previamente pubblicato ne The Palestinian Chronicle [en], l'articolo viene di seguito riproposto per gentile concessione. Sono stati aggiunti collegamenti ipertestuali per eventuali e aggiuntive chiarificazioni.
È altamente probabile che, nell'Europa del tardo ‘900, i primi pensatori e leader del movimento sionista abbiano immaginato, o perlomeno sperato, che la Palestina fosse una terra disabitata e che, quand'anche fosse popolata, non si trattasse che di tribù nomadi prive di radici che, in sostanza, non la abitavano in pianta stabile.
Se la realtà fosse stata questa, molto probabilmente i rifugiati ebrei in strada verso tale terra vi avrebbero edificato una prosperosa società e, presumibilmente, avrebbero trovato un modo per evitare la loro polarizzazione dal Mondo Arabo.
Tuttavia, ciò che realmente sappiamo è che molti dei primi architetti del sionismo erano perfettamente consapevoli che la Palestina non fosse una terra disabitata [en].
Tali architetti, come d'altronde il resto dell'Europa, erano troppo razzisti e orientalisti per rendersi conto di quanto la società palestinese fosse progressista [en] per l'epoca, con un'élite urbana colta e politicizzata e una comunità rurale che viveva serena in un sistema genuino di convivenza e solidarietà.
La società palestinese, come molte altre società della regione, era alle soglie della modernità, una miscela di tradizioni e nuove idee. Queste avrebbero dovuto costituire le basi di un'identità nazionale e rappresentare una visione di libertà e indipendenza proprio in quella terra che avevano abitato per secoli.
Di certo i sionisti sapevano già che la Palestina fosse la terra dei palestinesi, eppure percepirono la popolazione autoctona come un ostacolo demografico da rimuovere, per far sì che il progetto sionista di edificazione di uno stato ebreo avesse successo.
Fu così che l'espressione “Questione Palestinese” entrò a far parte del lessico della politica internazionale [en].
Dal punto di vista della direzione sionista, tale “questione” avrebbe potuto risolversi solo sfollando i palestinesi e sostituendoli con immigrati ebrei.
Come se ciò non bastasse, la Palestina doveva essere strappata al mondo arabo e divenire un avamposto difensivo al servizio delle aspirazioni imperialiste e coloniali occidentali di conquista dell'intero Medio Oriente.
Tutto ebbe inizio con Homa e Migdal, letteralmente, torre e palizzata.
‘Torre e palizzata’
Questi due elementi, ancora presenti in ciascun insediamento sionista, venivano considerati le pietre miliari più rilevanti del processo di “ritorno” a quella terra apparentemente disabitata.
All'epoca, così come oggi, i villaggi palestinesi non avevano mura o torri di guardia.
Gli abitanti potevano uscire ed entrare liberamente e godere della vista dei paesini lungo la strada, inoltre, cibo e acqua erano disponibili per qualsiasi passante.
Gli insediamenti israeliani, al contrario, sorvegliavano religiosamente i propri frutteti e terreni e definivano ladri e terroristi chiunque osasse toccarli. Ciò spiega perché, sin dall'inizio, non edificarono habitat umani normali, bensì roccaforti dotate di mura e torri di guardia, che resero pressoché impossibile discernere all'interno della comunità di coloni i civili dai soldati.
Per un breve periodo, gli insediamenti sionisti guadagnarono il riconoscimento dei movimenti socialisti e comunisti di tutto il mondo, semplicemente perché si trattava di paesi dove il comunismo veniva sperimentato fanaticamente senza successo. La natura di tali insediamenti, tuttavia, sin dall'inizio, svelò ciò che il sionismo significasse per il paese e la propria gente.
Chiunque fosse arrivato in qualità di sionista, sperando di trovare una terra disabitata o determinato a renderla tale, era stato arruolato in una società militare di coloni che poteva realizzare il sogno della terra disabitata solo con la pura forza.
Come affermato da Theodore Herzl, la popolazione autoctona declinò l'offerta di “dileguarsi” in altri paesi.
Nonostante la grande delusione derivante dalla ritrattazione britannica delle proprie promesse iniziali di osservanza del diritto di autodeterminazione di tutto il popolo arabo, i palestinesi speravano ancora che l'Impero li avrebbe protetti dal progetto sionista di sostituzione e sfollamento.
Negli anni '30, i leader della comunità palestinese compresero che ciò non sarebbe mai accaduto. Si ribellarono solo per essere pestati dall'Impero che, in ottemperanza del “Mandato“ ricevuto dalla Società delle Nazioni, aveva il compito di proteggerli.
L'Impero è rimasto immobile anche nel 1948, quando il movimento sionista ha perpetrato una vasta operazione di pulizia etnica che, durante la Nakba [en], ha causato l'espulsione del 50% della popolazione autoctona.
Dopo la Catastrofe [en], tuttavia, la Palestina era ancora popolata da molti palestinesi, chi venne cacciato si rifiutò di accettare un'altra identità e, proprio come accede oggi, lottò per il ritorno in patria.
Mantenere vivo il ’sogno’
Chi permase in Palestina continuò a dimostrare che tale terra non fosse disabitata e che i coloni potessero raggiungere il proprio scopo, ovvero trasformare i palestinesi arabi, musulmani e cristiani in palestinesi europei ed ebrei, solo con la forza.
Più gli anni passavano e più forza era necessaria per realizzare tale sogno europeo a spese del popolo palestinese.
Il 2020 marcò cento anni di continui tentativi di implementazione, mediante la forza, della visione di trasformazione di una “terra disabitata” in un'entità ebrea. Peraltro, per ragioni democratiche e teocratiche, sembrava non vi fosse alcun consenso ebreo per tale parte della “visione”.
Centinaia di migliaia [en] di dollari degli esercenti statunitensi furono e sono tuttora necessari per mantenere vivo tale sogno.
Proprio a tale scopo, sarebbe stato necessario implementare quotidianamente un repertorio di mezzi violenti e spietati senza precedenti contro i palestinesi, i loro villaggi, le loro città o l'intera Striscia di Gaza.
Il costo umano pagato dai palestinesi per tale progetto infruttuoso è stato enorme, fino ad oggi [en] si aggira intorno ai 132.000 [en] decessi.
Il numero di palestinesi feriti e traumatizzati è alto al punto tale che è possibile annoverare in ciascuna famiglia palestinese almeno un membro, sia esso un bambino, una donna o un uomo, all'interno dell'elenco dei decessi.
La nazione della Palestina, il cui capitale umano era capace di muovere le economie e le culture del mondo arabo, è stata frammentata e privata della possibilità di mettere a frutto tale incredibile potenziale.
Questo è il contesto della politica del genocidio che Israele sta ora perpetrando a Gaza e della campagna di uccisioni senza precedenti in Cisgiordania.
L'unica democrazia?
Tali eventi tragici hanno sollevato ancora una volta un dilemma: come possono l'Occidente e il Nord globale rivendicare che tale progetto violento di oppressione di milioni di palestinesi sia condotto dall'unica democrazia del Medio Oriente?
Ma forse ancora più importante, perché così tanti sostenitori di Israele e gli stessi ebrei israeliani credono che questo sia un progetto sostenibile nel XXI secolo?
La verità è che non è sostenibile.
Il problema è che la disintegrazione di tale progetto potrebbe rivelarsi un lungo e sanguinoso processo, le cui principali vittime sarebbero inevitabilmente i palestinesi.
Non è certo se i palestinesi siano pronti a subentrare come movimento unitario di liberazione dopo le fasi finali di disintegrazione del progetto sionista.
Saranno in grado di scrollarsi di dosso il senso di sconfitta e di ricostruire la propria patria come un paese libero?
Personalmente, sono fiducioso che la giovane generazione palestinese ne sarà in grado.
Quest'ultima fase potrebbe essere meno violenta, più costruttiva e produttiva per entrambe le società, quella dei coloni e quella dei colonizzati, se solo la regione e tutto il mondo intervenissero ora.
Se alcune nazioni smettessero di far inferocire milioni di persone rivendicando che un progetto di cent'anni, volto a privare una terra del proprio popolo autoctono con la forza, sia un progetto che riflette una democrazia illuminata e una società civilizzata, gli statunitensi smetterebbero di chiedersi: “Perché ci odiano?”.
Gli ebrei di tutto il mondo non sarebbero costretti a difendere il razzismo ebraico utilizzando l'antisemitismo e la negazione dell'olocausto come arma.
Chissà che anche i cristiani sionisti non ritornerebbero ai precetti umani fondamentali che il Cristianesimo rappresenta e prenderebbero parte in prima linea alla coalizione determinata a porre fine alla distruzione della Palestina e del suo popolo.
Multinazionali, agenzie di sicurezza e industrie militari, di certo, non parteciperebbero a nuove coalizioni contrarie al progetto di sfollamento del territorio. Tuttavia, potrebbero essere contestate.
L'unico prerequisito necessario è che noi, ingenui individui che credono ancora nella moralità e nella giustizia, facciamo da faro in quest'epoca di ombre e comprendiamo davvero che fermare i tentativi di sfollamento della Palestina rappresenti l'inizio di una nuova era, di un mondo di gran lunga migliore.