“E tu condanni?”

Fermare le uccisioni. Berlin Mitte, Potsdamer Platz, 29 novembre. Foto di . CC BY-NC-ND 2.0 DEED. Uso corretto.

Questo articolo è stato scritto da Wieland Hoban [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] ed è stato originariamente pubblicato su The Battleground il 1º dicembre, 2023. Ne ripubblichiamo su Global Voices una versione modificata come parte di un accordo per la condivisione dei contenuti.

Tra i molti discorsi che contribuiscono a delegittimare la resistenza palestinese, anche nelle sue forme non violente quali la protesta e il boicottaggio, troviamo la domanda “Condanni?”

Essa viene continuamente rivolta dagli intervistatori agli ospiti palestinesi, come un rituale da celebrare prima che la discussione possa proseguire, o ai sostenitori dei diritti dei palestinesi, come dimostrato recentemente dal conduttore televisivo britannico Piers Morgan in una conversazione con Jeremy Corbyn.

In un’intervista con Christiane Amanpour della CNN, la regina Rania di Giordania ha sottolineato la disparità di trattamento:

Why is it that when people are coming to represent, you know, the Palestinian issue, at the top of an interview, they have to have their humanity cross-examined, they have to present their moral credentials: “Do you condemn?” We don’t see Israeli officials being asked to condemn, and when they are, people are readily accepted by “our right to defend ourselves.” I have never seen a Western official say the sentence: Palestinians have the right to defend themselves.

Perché quando qualcuno viene a rappresentare la questione palestinese, all'inizio di un'intervista, deve veder mettere sotto esame la sua umanità e deve presentare le sue credenziali morali: “Condanni?” Non vediamo ufficiali israeliani a cui viene chiesto di condannare, e quando lo fanno, viene prontamente accettato “il loro diritto di difendersi”. Non ho mai visto un ufficiale occidentale pronunciare la frase: I palestinesi hanno il diritto di difendersi.

Se la regina è stata trattata con un po’ più di tatto rispetto alla maggior parte dei palestinesi e non le è stata posta direttamente questa domanda, l'ambasciatore palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, è stato sottoposto a un interrogatorio particolarmente degradante da parte della presentatrice Kirsty Wark, durante il programma Newsnight della BBC.

Zomlot aveva appena perso sei familiari, compresi due bambini, a Gaza. Questo, tuttavia, non ha trattenuto la Wark dall'insistere affinché lui, un rappresentante dell'OLP, condannasse le azioni di Hamas. Zomlot ha mostrato un incredibile autocontrollo, mantenendo la calma nonostante il dolore.

Per chiunque conosca la storia di quella che è stata la reazione dei popoli oppressi (siano essi colonizzati da altri o trattati ingiustamente dal loro stesso Stato) alla loro oppressione, si tratta solo dell'ultimo episodio di un fenomeno di lunga durata.

Poiché l'oppressore è dominante non solo sul piano politico e materiale, ma anche su quello discorsivo, qualsiasi rifiuto di accettare i suoi termini e condizioni è visto come una dimostrazione della barbarie del popolo oppresso, rafforzando l'idea che l'oppressione sia giustificata o persino necessaria.

Nella storia recente, un esempio lampante di questo si può trovare in un’intervista all'icona dei diritti civili degli afroamericani, Angela Davis [it], risalente al 1972, quando si trovava in carcere.

In essa, la Davis esprime sconcerto per la domanda del suo interlocutore che le chiede se approva la violenza nella lotta degli afroamericani, essendo lei cresciuta in una comunità soggetta a continue violenze di stampo razzista.

Va ribadito che ciò non è una giustificazione generalizzata per qualsiasi azione di resistenza, e l'attacco del 7 ottobre ha oltrepassato la linea tracciata dal diritto internazionale. Tuttavia, l'uso del termine definisce il contesto, non la moralità.

Quando i nativi americani lottarono contro il genocidio, compirono massacri ai danni di famiglie inermi di coloni, ma il verdetto della storia chiaramente non fu che tali atrocità invalidassero la lotta contro il genocidio in sé.

Non è necessario risalire al 1948 per sottolineare la costante violenza di Israele contro i palestinesi a Gaza e altrove. È sufficiente tornare indietro di 16 anni alla decisione di porre la Striscia di Gaza sotto embargo [it].

Si è trattato di un atto di punizione collettiva, condannato dalla comunità internazionale, e le sue numerose ramificazioni costituiscono uno stato di violenza.

La violenza chiama violenza e la resistenza armata a Gaza, che comprende non solo gruppi islamisti come Hamas, ma anche i marxisti-leninisti del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [it]), agisce in risposta alla violenza dell'occupazione.

Il termine ‘terrorismo’ oscura tutto ciò e delegittima la resistenza non solo in relazione a fatti specifici come l'uccisione di civili, bensì per il semplice atto di resistere. È precisamente questa resistenza che si esorta a denunciare quando si chiede: “Condanni Hamas?”

Uno dei più noti ed eloquenti politici di sinistra in Europa, l'economista greco Yanis Varoufakis [it], ha aggiunto un elemento di novità durante un'intervista, spiegando il motivo per cui si è rifiutato di condannare Hamas per il suo attacco.

Egli individua la responsabilità delle ingiustizie strutturali alla base della violenza non tanto in Israele stesso, quanto nell'Occidente, poiché i Paesi occidentali sostengono da decenni le azioni di Israele e il suo sistema di apartheid.

Varoufakis fa semplicemente notare che quando i membri della resistenza nera in Sudafrica commettevano atti di violenza durante la loro lotta contro l'apartheid, il problema non era la loro violenza. Il problema era l'apartheid.

La capacità di individuare le sfumature può essere una merce rara in un discorso pubblico come il nostro, sempre più polarizzato e dominato dall'indignazione online, e probabilmente tale merce non è mai stata così rara come dopo il 7 ottobre.

L'organizzazione di attivisti con sede in Germania, Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East (Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente), certamente non è rimasta impassibile. Molti dei suoi membri sono israeliani con famiglia e amici in Israele.

Quel giorno, un membro dell'organizzazione ha perso un parente, a cui l'IDF ha sparato per errore dopo averlo scambiato per un militante palestinese. Un altro membro aveva vissuto per qualche anno a Sderot e non voleva guardare l'elenco delle vittime, per paura di leggere dei nomi a lui familiari. Si tratta di appena due esempi.

Non deve sorprendere che l'organizzazione abbia registrato anche un certo livello di attrito interno per quanto riguarda la sua risposta a tali eventi.

Mentre alcuni membri ritenevano essenziale esprimere empatia, altri non consideravano che il ruolo di un'organizzazione di attivisti politici fosse quello di dare risalto alle emozioni, quando la causa principale alla base della violenza del momento è un sistema di oppressione e violenza strutturale di lunga data.

C'è stata rabbia e disapprovazione, e un membro ha persino lasciato il gruppo.

Il consiglio direttivo ha infine rilasciato una dichiarazione che cercava di trovare una via di mezzo tra l'umanità e l'analisi politica. Era evidente che gli oppositori dell'organizzazione, e anche alcuni suoi sostenitori, l'avrebbero attaccata, poiché essa non condannava quanto avvenuto, per i motivi sopra enunciati.

Non si tratta di scegliere di schierarsi con coloro che hanno ucciso persone innocenti il 7 ottobre, ma piuttosto un voler affermare inequivocabilmente che tali vittime sono state provocate dall'ingiustizia inflitta a coloro che sono stati uccisi molto tempo prima e che vengono uccisi a migliaia nel momento in cui questo articolo viene scritto.

In memoria di Khalil Aburaida, ucciso dai bombardamenti israeliani nell'ottobre 2023, e per sua moglie Alaa e i loro quattro figli, la cui sorte è sconosciuta.

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