Nota: Il seguente articolo presenta link contenenti immagini grafiche che potrebbero non essere adatte a un pubblico più sensibile.
Durante la mia infanzia a Gerusalemme in Cisgiordania, ho interiorizzato gli insegnamenti impartitimi alle scuole elementari, che ritraevano un'immagine della giustizia come indiscussa nell'universo.
Tuttavia, la mia esperienza al checkpoint di Qalandia [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione], dove l'esercito israeliano ha maltrattato bambini e adulti palestinesi in strada verso scuola o verso il lavoro, mi ha indotto a mettere in discussione tali insegnamenti. Veniamo umiliati ogni qual volta attraversiamo i checkpoint, di mattina ci costringono a stare in fila per ore mentre ispezionano le nostre borse ed esaminano i nostri certificati di nascita (koshan) [he] e i documenti d'identità.
Nel 2004, in un documentario realizzato da MachsomWatch (Checkpoints Watch), un collettivo di donne israeliane che monitora e documenta la condotta dei soldati e degli agenti di polizia nei checkpoint in Cisgiordania, al minuto 9:11 appaio sulla destra al fianco di mio padre. All'epoca avevo solo sei anni, ero in prima elementare. Gridavamo ai soldati di lasciarci passare perché eravamo in ritardo per un compito in classe. Ricordo che mio padre era davvero molto frustrato.
Al di là di tali esperienze, il nostro curriculum scolastico palestinese ci fece credere nell'esistenza di un consiglio sofisticato ed efficiente (le Nazioni Unite), in cui le nazioni si riunivano per discutere delle problematiche mondiali e per prevenire guerre ed atrocità.
Ho assistito all'edificazione di un muro in cemento alto 9 metri, edificazione avviata nel 2002 e muro in seguito identificato come “il muro dell'apartheid.” Il muro separava la mia scuola a Beit Hanina da casa mia a Kufarakab e creava una barriera tra la mia e la dimora dei miei cugini. Proprio da quel muro nacque la mia curiosità per il termine “apartheid.”
Ricordo che i rumori dei lavori per il muro in fondo alla strada giungevano vividi sino a scuola, dove nel frattempo imparavamo cosa fosse la “Nakba” e tutto il dolore legato a tale parola.
La Nakba, termine arabo [it] per “catastrofe”, denota gli eventi che si accompagnarono alla guerra palestinese del 1948, la quale diede il via alla fondazione dello stato di Israele. I gruppi parlamentari [it] sionisti, in seguito divenuti le Forze di difesa israeliane anche conosciute come Forze di occupazione israeliane, perpetrarono numerosi massacri contro i civili palestinesi.
Centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a fuggire o vennero cacciati via dalle loro terre, portando numerosi rifugiati a spostarsi in paesi arabi limitrofi. Generazioni e generazioni hanno vissuto apolidi [it] nei campi profughi del Libano, della Giordania e della Siria, in attesa di ritornare a casa 75 anni dopo.
Quanto a noi bambini frequentanti la scuola a Gerusalemme, ci convinsero che la risposta fosse semplice quanto fare uno più uno; di certo è stato il mondo a permettere alla Nakba di avere luogo, perché non sapeva stesse accadendo. Dai principi morali appresi in classe da bambini, imparammo che la vita umana ha un valore a prescindere dalla religione, dalle esperienze pregresse e dalla lingua.
I nostri nonni e bisnonni che vissero sulla propria pelle la Nakba furono presi alla sprovvista dalle ondate di terroristi israeliani. Negli anni '20, il mio bisnonno visse nella Città Vecchia di Gerusalemme, nella stessa casa in cui dimorò un uomo palestinese ebreo di nome Mordachay. Il mio bisnonno era musulmano ma parlava yiddish e il suo vicino e amico Mordachay parlava arabo. Hamed e Mordachay erano entrambi calzolai in quello che oggi viene chiamato il Mercato di Mahane Yehuda ancor prima della fondazione di Israele. Il mio bisnonno si fidava del popolo ebraico, perché lo considerava alla pari di quello palestinese. La Nakba ha lasciato profondi traumi generazionali nella mia famiglia, storie che ripercorriamo ancora tutt'oggi. Nel 1946, mio nonno acquistò la casa dei suoi sogni affianco alla Cineteca di Gerusalemme, per poi essere costretto a fuggire con il mio bisnonno Nazeemeh due anni dopo. Quando fecero rientro dopo alcuni giorni, ritrovarono la casa occupata da una famiglia ebrea israeliana. Proprio così, la casa dei suoi sogni era andata. L'unica spiegazione che sembrava avere senso era che al tempo non avevano cellulari, quindi non potevano riprendere le atrocità che stavano vivendo, inoltre, nessuno poteva salvarli.
La Nakba del 2024
È stato un lungo periodo segnato da un duro inverno, quella che in genere è una stagione di gioia e vita a Gaza è stata resa difficoltosa dalla crudeltà dello sfollamento.
Le giornate si colorano delle crude tonalità della fame e della morte. Tra le tende distrutte e le speranze in frantumi, si ergono case in rovina con anime infrante, orfani e familiari seppelliti tra le macerie di case in cui, come aveva garantito loro il crudele regime che cerca di sterminarli, credevano di essere al sicuro.
Le scene spaventose comprendono corpi in decomposizione non rivendicati su marciapiedi [ar], fosse comuni, martiri senza sepolcri e resti umani che pendono da alberi e finestre [ar] a causa dell'impatto delle esplosioni. Chi sopravvive alla quotidiana raffica di bombe viene lasciato dormiente sul freddo asfalto, sotto a tende di fortuna fatte di teli in plastica. Tali atrocità si dispiegano inesorabilmente gettando una lunga e infausta ombra sulla coscienza del mondo.
In quei 150 giorni i bambini sono cresciuti, sono stati incaricati di filmare la guerra e documentare gli orrori imperscrutabili che li circondano. Hanno visto i loro cari morire di fame [ar] e dire addio ai loro fratelli minori e compagni di giochi. In tale realtà distopica, vediamo un padre sopportare il peso straziante di reggere in borse di plastica le salme dei propri figli, supplicando il mondo di fare da testimone. Un mondo che sa esattamente quello che sta accadendo, dal momento che le atrocità vengono trasmesse sui social media. Un mondo che, tuttavia, è divenuto sordo, muto e complice.
La luce di speranza negli occhi dei bambini innocenti si sta lentamente affievolendo, i videomaker stanno dimagrendo e i giornalisti stanno diventando protagonisti dei notiziari. Wael Al Dahdouh, rinomato giornalista palestinese presente nelle nostre TV sin dal 2004, ha detto addio a sua moglie, suo figlio, sua figlia e suo nipote uccisi in un attacco aereo israeliano che ha colpito la loro casa il 25 ottobre, mentre era in servizio. Due mesi e mezzo dopo, suo figlio Hamza Al Dahdouh è stato ucciso da un attacco aereo israeliano, mentre guidava un'auto della stampa chiaramente contrassegnata.
Fino ad ora, a Gaza sono stati uccisi da Israele 126 giornalisti nell'ovvio tentativo di zittire l'opinione palestinese che cerca di mostrare al mondo i crimini di guerra perpetrati quotidianamente.
Riflessioni sulle ingiustizie
Mi dispiace se tutto quello che possiamo fare è solo osservare con impotenza sui nostri schermi il nostro popolo cadere e morire da 150 giorni a pochi chilometri da noi, in Cisgiordania e Gerusalemme. Non trovo giusto che il mondo accusi gli abitanti di Gaza di essere terroristi, con più di 30.000 morti, solo perché Israele rivendica il diritto di difendersi da coloro che ha occupato e oppresso.
Mi rammarico del fatto che viviamo in un mondo in cui i fondi possono essere tagliati rapidamente dall'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel vicino Oriente sulla base di mere affermazioni fatte dagli ufficiali israeliani.
Nel frattempo, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) si prende del tempo per decidere se l'omicidio doloso di più di 30.000 persone, accompagnato da atti di inedia, bombardamenti, sparatorie e torture perpetrati per più di 150 giorni, siano qualificabili come genocidio. Tale ritardo della giustizia ci ricorda in modo vivido il persistere dell'ingiustizia.
Forse dovremmo rivolgerci agli stessi alunni a cui fu impartito il concetto di giustizia e chiedere loro se ciò che il mondo si rifiuta di vedere possa essere considerato genocidio.