Undertones: un dizionario per comprendere la guerra a Gaza

Questa storia fa parte di Undertones, la newsletter del Civic Media Observatory [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] di Global Voices. Iscriviti ad Undertones.

Bentornati su Undertones, dove analizziamo le narrazioni di tutto il mondo. Dalla fine del 2023, il Civic Media Observatory ha avviato un nuovo progetto focalizzato sulla governance dei dati. Tuttavia, vi sono ancora alcune importanti storie del nostro Community Observatory che vorremmo condividere. Una di esse si deve alla nostra ricercatrice di Gaza, che attualmente risiede all'estero ma ci ha aiutato a dare un senso al conflitto sin dal suo inizio. A dicembre, abbiamo pubblicato un'analisi delle narrazioni problematiche provenienti da Israele.

Questa volta, la nostra ricercatrice Haneen Abo Soad e l'editor di Global Voices per il Medio Oriente e il Nord Africa Mariam A. hanno unito le forze per scrivere questo pezzo riguardante le parole corrette da utilizzare per descrivere il conflitto nell'ambito dei progetti dell'Observatory.

Decodificare il linguaggio del genocidio in corso a Gaza

Negli intricati fili della storia, si è visto come il linguaggio abbia a lungo giocato un ruolo strategico, soprattutto nell'ambito della colonizzazione. Coloro che detenevano il potere soffocavano abilmente le lingue native al fine di domare la resistenza. Tale tattica non ha certo perso smalto, anzi rimane molto attuale: i poteri contemporanei manipolano il linguaggio per “fabbricare il consenso [it],” giustificando atti oppressivi e guadagnandosi il supporto dell'opinione pubblica.

Nella costante lotta combattuta dal nostro popolo in Palestina, la danza delle parole è al centro della scena. Israele e i suoi sostenitori sfruttano il linguaggio per creare una narrazione che priva noi palestinesi della nostra umanità, dipingendo la nostra resistenza come illegittima e bollandola come antisemitismo o terrorismo. Isabella HammadSahar Huneidi, due storiche palestinesi, gettano luce sullo schema di Israele che etichetta tutta la nostra resistenza come terrorismo, persino quando si tratta di azioni pacifiche, ad esempio i boicottaggi economici. Questa caratterizzazione si estende alla guerra asimmetrica tra i civili palestinesi e l'esercito israeliano, come descritto in un articolo del The Nation del 21 dicembre 2023.

Per noi palestinesi, questa manipolazione del linguaggio non rappresenta un dibattito lontano, ma la nostra realtà quotidiana, intensificatasi durante la guerra in corso a Gaza. Israele e i suoi alleati portano avanti la guerra su diversi livelli, distorcendo le parole della lingua nativa, ridefinendole e vietandole completamente, il tutto per soffocare la nostra resistenza.

In questa ingarbugliata guerra linguistica, Israele e i suoi alleati negano il genocidio in corso a Gaza, a dispetto delle immagini che circolano sui social media e che lo testimoniano dinanzi al mondo intero.

Abbiamo attentamente selezionato alcuni termini usati dai media globali con l'obiettivo di gettare luce sulla nostra prospettiva. Dopo 75 anni segnati dalla pulizia etnica, 56 anni di occupazione militare e 17 anni di assedio di Gaza, vediamo il nostro popolo intrappolato nell'attuale genocidio. Il bilancio è intollerabile: oltre 30 mila persone uccise, 70 mila feriti e molti altri bloccati sotto le macerie. 

Eppure, mentre guardiamo i nostri bambini morire ogni giorno per le bombe, la fame e la sete, la discussione globale si concentra su dibattiti semantici, sviando l'attenzione da questioni più urgenti e concrete.

Evacuazione e Nakbah (‘نكبة’ Catastrofe’)

“Non prendere tutta la tua roba, Um Ahmed. Prendi solo l'essenziale. Forza, mio caro, cammina davanti a me. Saranno solo due giorni, e poi ritorneremo.” — tratto dalla serie Palestinian Nakbah dell'autore palestinese Waleed Saif.

Queste parole rievocano tutte le famiglie palestinesi coinvolte nella diaspora e costrette nei campi profughi. Ripetute da nonni e genitori, esse aleggiano nell'aria, eppure eccoci qui, 76 anni dopo, senza che quei due giorni siano ancora giunti al termine.

Questa è proprio la ragione per cui il termine “evacuazione/sfollamento” porta il peso di 75 anni di sfollamento e della lunga battaglia di milioni di palestinesi in tutto il mondo. Tale peso è divenuto palpabile e si è fatto strada nella coscienza globale il giorno 13 ottobre, quando Israele ha ordinato a 1,1 milioni di persone a nord della striscia di partire e a 22 ospedali di evacuare le strutture prima dell'offensiva di terra lanciata contro una Gaza assediata. Questa direttiva, condannata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una “sentenza di morte per i malati e i feriti” e definita un potenziale “crimine di guerra” da Amnesty International, ha portato a conseguenze dal peso considerevole. 

Il termine “evacuazione” fa generalmente riferimento allo spostamento di individui da una zona pericolosa a una sicura. A Gaza, alcuni sono stati costretti a rispettare l'ordine di evacuazione, mentre altri si sono rifiutati, riconoscendo la dura realtà, ossia che non esiste nessun posto sicuro a Gaza, una verità emersa chiaramente nel corso degli ultimi 145 giorni e oltre [ar]:

Questa foto è stata scattata oggi a Khan Yunis.

Una delle foto più atroci di sempre, come può una sola immagine essere carica di così tanta miseria!!!

Per i palestinesi, la parola “evacuazione” fa riemergere i tormentosi ricordi della Nakbah (termine arabo che sta per “catastrofe”) del 1948: un evento traumatico che ha fatto violentemente spostare 700 mila dei nostri dalle loro case e terre natie per spianare la strada alla creazione di Israele. Ciò ha portato alla distruzione della nostra società, cultura, identità, dei nostri diritti politici e aspirazioni nazionali. Da allora, ci è stato negato il diritto di tornare a casa e, da oltre sette decenni, combattiamo strenuamente per quel diritto. La risonanza del termine si estende all'attuale persecuzione dei palestinesi in Cisgiordania

Per i gazawi,  la parola “evacuazione” si trasforma in un agghiacciante eco della storia che li spinge a uno spostamento forzato, stavolta verso il deserto del Sinai, senza alcuna prospettiva di tornare a casa, con il pretesto di uno sfollamento.

Ostaggi e prigionieri (سجناء ‘sojanaa’) 

“Se si picchia un prigioniero, si sta esprimendo paura in modo arrogante.” — Ghassan Kanafani

Vale la pena sottolineare che i termini “ostaggi” e “prigionieri” vengono utilizzati per descrivere sia i prigionieri palestinesi sia quelli israeliani, ma con diverse connotazioni. All'indomani dell'attacco sferrato da Hamas contro gli insediamenti israeliani, che ha causato 1.139 vittime e portato alla cattura di 250 individui, l'attenzione si è concentrata sugli “ostaggi” israeliani.

Il tutto mentre Israele dichiarava guerra a 2.4 milioni di palestinesi intrappolati a Gaza, utilizzando una retorica disumanizzante nella quale quegli individui sono stati etichettati come “animali umani”. 

La situazione degli ostaggi ha incoraggiato un accordo tra Israele e Hamas, sfociato in una tregua temporanea e nel rilascio di 84 prigionieri israeliani e 240 palestinesi. Il cessate il fuoco è durato una settimana.

Sebbene siano stati definiti diversamente, questo accordo ha costretto il mondo a riconoscere la presenza di 7.200 palestinesi, tra cui uomini, donne e bambini, trattenuti nelle carceri israeliane.

Secondo l'organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem, a novembre 2023 risultavano esserci 4.764 palestinesi detenuti per ragioni di “sicurezza”, la maggior parte dei quali non era mai stata condannata per alcun crimine. Secondo Human Rights Watch 2.000 soggetti si trovano in detenzione amministrativa, dove le forze armate israeliane trattengono una persona senza che sia stata sottoposta a un processo, presumendo che possa commettere un reato in futuro.

Associated Press osserva che “oltre 750 mila palestinesi sono passati per le carceri israeliane da quando Israele si è impossessato della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est nel 1967,” compresi dei bambini.  

A partire dalla seconda Intifada [it] del 2000, le autorità militari israeliane hanno detenuto, interrogato, perseguito legalmente e imprigionato circa 13.000 bambini palestinesi, il cui 86 percento non era stato informato della ragione del proprio arresto, secondo quanto riportato da Defense for Children International – Palestine. Si stima che solo negli ultimi cinque mesi siano stati detenuti 460 bambini.

Questi sono i “prigionieri” palestinesi che vengono scambiati con gli ostaggi israeliani. Ci sono anche dei bambini. Bambini che sono stati sottratti alle loro case. Bambini che vogliono soltanto abbracciare le loro madri. Questi sono i ragazzi ai quali i media non concedono nemmeno la dignità di essere chiamati bambini.

Inoltre, le condizioni delle carceri, le torture e il trattamento degradante [ar] dei detenuti sono altamente disumanizzanti e costituiscono una violazione del diritto internazionale. 

Il 1 febbraio 2022, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che esortava a riconoscere le responsabilità di Israele nel crimine di apartheid contro i palestinesi. In questo sistema di apartheid, il governo israeliano ha istituito una struttura legale e politica su due livelli che garantisce diritti ai coloni israeliani mentre sottopone i palestinesi al controllo e a un regime militare, privandoli di diritti basilari secondo le leggi internazionali.

Le 2.4 milioni di persone a Gaza e i 7.200 palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane sono inequivocabilmente ostaggi, proprio come i 250 israeliani, e meritano la medesima attenzione.

Fingere di non vedere le loro difficoltà rivela che a livello globale si usano due pesi e due misure. Indipendentemente dal termine col quale il mondo decide di definirli, è fondamentale riconoscere che nessun civile dovrebbe essere tenuto prigioniero o sfruttato come merce di scambio, a prescindere dalla fazione alla quale appartengono.

I danni collaterali e i shuhada palestinesi (‘شهداء’)

“E se ti chiedono di Gaza, dì loro che ha uno shaheed, uno shaheed la aiuta, uno shaheed le scatta foto, uno shaheed le dice addio, e uno shaheed prega per lei.” — Mahmoud Darwish, poeta e autore palestinese 

Nelle toccanti parole di Mahmoud Darwish, Gaza è caratterizzata dalla presenza dello “shaheed” (al plurale, shuhada): non si tratta di semplici martiri, ma di testimoni delle gravi ingiustizie subite. La parola “shaheed”, spesso mal tradotta, mal interpretata e utilizzata in maniera impropria dagli occidentali, viene comunemente tradotta come “martire,” sebbene il suo significato letterale in arabo coranico sia “testimone.” Essa compare 35 volte [ar] nel Corano [it], prevalentemente come “testimone” e solo una volta come “martire.” Il termine possiede un significato più profondo, quello di testimoni che espongono dinanzi a Dio i crimini commessi contro di loro.

Nel contesto palestinese, il termine comprende persone e comunità uccise dalla violenza imposta da Israele nel corso dei 75 anni di occupazione. Esso include un ampio spettro di individui, tra cui combattenti della resistenza, ma anche nonni, genitori, figli, figlie, fratelli e sorelle, cugini, familiari, amici, lavoratori della società civile, dottori, insegnanti, giornalisti, bambini e tutti i civili innocenti vittime di ingiustizia, a prescindere dalla loro religione.

Persone che erano amate, che avevano delle vite, dei sogni e delle speranze.

Queste persone vengono generalmente liquidate come “danni collaterali” da Israele e i suoi alleati. Questo termine si basa sul principio che valuta se il vantaggio militare che si otterrebbe colpendo un particolare obiettivo risulti “proporzionato” o giustifichi le potenziali perdite tra i civili. 

Una recente inchiesta, condotta dal Guardian e dalla rivista isrealiana 972+ Magazine, ha rivelato l'utilizzo da parte dell'esercito israeliano dell'intelligenza artificiale (IA) nel corso dell'attuale guerra a Gaza. Operando tramite una piattaforma nota come “the Gospel (il Vangelo),” questa tecnologia IA identifica potenziali obiettivi aggiuntivi, determinando un incremento delle autorizzazioni concesse per i bombardamenti di aree non militari. Secondo la rivista +972 magazine, l'esercito israeliano possiede file riguardanti i potenziali obiettivi a Gaza, determinando in anticipo il numero previsto di civili che verranno probabilmente uccisi in ogni attacco. “Questo numero viene calcolato e appreso in anticipo dalle unità di intelligence dell'esercito, le quali poco prima di sferrare un attacco sanno anche approssimativamente quanti civili rimarranno di certo uccisi.”

L’attacco sferrato vicino al campo profughi di Jabalia, tuttavia, ha destato preoccupazione in merito alla sua proporzionalità, facendo sì che Israele venisse accusato di aver commesso crimini di guerra ed esortato a compiere maggiori sforzi per tutelare i civili.

Tale scelta linguistica mette in discussione un'espressione come “danni collaterali” e sottolinea l'importanza di ogni “shaheed,” descrivendo le vite perdute come testimoni piuttosto che vittime, enfatizzando il profondo impatto di ciascun essere umano che si trova a subire le conseguenze del genocidio in corso.

Per concludere, il potere del linguaggio riveste un'importanza più che significativa nell'ambito del conflitto israelo-palestinese. Approfondire l'impatto del linguaggio diventa cruciale per comprendere le sfumature e la portata dell'attuale battaglia per la giustizia nell'ambito di una realtà molto complessa. Questa battaglia va oltre la sfera fisica e comprende le parole che decidiamo di utilizzare, cosa che enfatizza le profonde conseguenze delle scelte linguistiche nella ricerca di una narrazione giusta ed equilibrata.

La rubrica dedicata di Global Voices: “Israel's war on Gaza

Vi incoraggiamo a esplorare la nostra rubrica: “Israel's war on Gaza.”

Le dichiarazioni di Global Voices in merito alla guerra

  • Global Voices si è unita a oltre 140 organizzazioni della società civile e attivisti per chiedere un cessate il fuoco immediato a Gaza e Israele. Leggi la dichiarazione qui [it].
  • Global Voices si è schierata al fianco di 29 organizzazioni per i diritti umani nell'esprimere profonda preoccupazione in merito alla sistematica presa di mira di giornalisti palestinesi da parte delle forze armate israeliane a Gaza. Leggi la dichiarazione qui

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