Un siriano e il suo viaggio estenuante verso la libertà

Firas in Siria settentrionale dopo la sua evacuazione. Foto usata con permesso.

In una calda notte di luglio, un giovane siriano si avventura nell'oscurità sperando di fuggire da ciò che una volta chiamava casa. Con passo stanco attraversa valli e campi, cammina in cima a montagne e muri, portando il fratello minore tra le sue braccia. Documentando gli orrori della guerra e viaggiando attraverso campi tenebrosi dove le iene ululano in lontananza, questa è la storia di Firas Al Abdullah.

Firas proviene da Douma, una città siriana nella regione di Ghouta, situata a nord-est della capitale. La regione ha conosciuto un'abbondanza di atrocità inconcepibili nel corso della guerra che dura da sette anni.

Dopo due offensive ribelli che hanno scacciato le forze del regime, il regime di Assad, sostenuto dall'Iran e da Hezbollah, ha contrattaccato e assediato la Ghouta orientale nel 2013.

Tra le città assediate c'era Douma, la città natale di Firas. La Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite [en, come i link seguenti] sulla Siria ha descritto l'assedio come “barbarico e medievale”. Durante questo assedio di cinque anni sono stati commessi numerosi crimini di guerra e crimini contro l'umanità, tra cui l'utilizzo di armi proibite e l'uso della fame come espediente di guerra.

Dopo un'intenso bombardamento, il regime di Assad ha lanciato più di 100 missili nei quartieri civili di Douma, Ghouta orientale.

L'incidente più letale mai avvenuto nella zona contro i civili è stato l'attacco chimico del 21 agosto 2013. Questo attacco con armi chimiche è quello che ha causato più vittime da 25 anni a questa parte.

Un rapporto dell'ONU ha confermato che l'attacco è stato effettuato utilizzando missili pieni anche con fino a 60 litri di agente nervino sarin. Secondo una valutazione preliminare dal governo degli Stati Uniti, l'attacco ha causato la morte di oltre 1.400 persone tra cui almeno 426 bambini.

Anche se il rapporto dell'ONU non dà la colpa a nessuno in particolare per questo attacco, diverse fonti indipendenti accusano il regime siriano. Peter Bouckaert, uno specialista di armi di Human Rights Watch, ha spiegato che i sistemi missilistici identificati nel rapporto dell'ONU fanno notariamente parte dell'arsenale delle forze armate siriane.

All'inizio del 2018 si sono intensificati i già persistenti attacchi alla Ghouta orientale. Una pubblicazione di Medici Senza Frontiere (MSF) ha descritto la situazione come “un terribile e implacabile disastro di massa.”

Il rapporto ha pubblicato dati medici raccolti nelle strutture sostenute dall'organizzazione durante le prime due settimane dell'offensiva militare. Ha rivelato che dal 18 febbraio al 3 marzo, sono state uccise in media 71 persone al giorno.

Momenti nell'inferno, la città di Douma incendiata dal terrorismo di Assad e quello russo contro i civili di Ghouta orientale. È l'Olocausto del 2018. 23 marzo.

Alla fine di marzo, Douma era l'ultima enclave ribelle rimasta.

Il mese successivo, un barile bomba contenente sarin è stato lanciato sulla città, uccidendo almeno 70 persone. I medici sulla scena hanno riferito che i sintomi delle vittime erano coerenti con quelli dell'esposizione agli agenti nervini.

Gli attivisti locali, gli operatori umanitari e alcune nazioni hanno attribuito l'attacco al regime siriano. La Russia, un alleato chiave del regime, ha negato che l'attacco si avvenuto e ha ribadito che le prove su video sono state messe in scena e dirette dall'intelligence britannica.

Durante tutti i cinque anni dell'assedio, Firas e i suoi compagni hanno girato per le strade ricoperte di detriti, realizzando video reportage di numerosi massacri poi pubblicati sui suoi account di social media.

Dopo una spietata campagna militare, Firas e la sua famiglia sono stati costretti a sfollare nel nord della Siria il 1° aprile, come parte di un accordo di evacuazione. In un'intervista con Global Voices, Firas ha dato un resoconto sincero di tutto ciò che ha subito.

“La vita al nord era molto difficile. Sentivamo parlare regolarmente di omicidi e rapimenti, soprattutto di attivisti, quindi è stato molto difficile per me.” Di conseguenza, la sua famiglia ha deciso di trasferirsi in Turchia. Spiega: “Volevamo andare avanti con le nostre vite ma, naturalmente, questo non significa che volessimo dimenticare. Non si può dimenticare la rivoluzione… fare questo vorrebbe dire deludere tutte le persone che sono state martirizzate, tutte le persone ancora detenute, tutti.”

Queste sono le tombe in cui adesso vivono i civili di Ghouta orientale. Queste famiglie vivono qui da più di 72 ore.

La gente qui soffre di mancanza di cibo e acqua. Non c'è modo di riscaldarsi e le condizioni di scarsa igiene dell'accampamento causano seri problemi di salute.

La maggior parte delle persone accampate sono donne e bambini.

Ghouta orientale, il nuovo Olocausto. #SalvateGhouta

Firas e la sua famiglia si sono accordati con un contrabbandiere per raggiungere la Turchia. Il loro viaggio pericoloso inizia la tarda notte del 21 luglio attraverso i boschetti di Deir Sawwan. Gli urli delle iene non scalfiggono la loro determinazione. Si riposano sotto un ulivo aspettando il segnale di via libera del contrabbandiere.

Infine, più tardi nella notte, raggiungono il muro di confine in cima a una montagna. Firas, insieme ai suoi genitori e fratelli, deve camminare sul muro largo solo 15 centimetri, con appena lo spazio di mettere un piede davanti all'altro. Proseguendo lungo questo bordo stretto, l'altezza del muro aumenta. Quando guarda in basso, Firas vede un precipizio profondo 30 metri.

Muhammad, il fratello minore di Firas, ha la stessa età della guerra. Prima di partire, Firas gli ha detto: “Sarai felice in Turchia. Potrai uscire di casa e giocare nelle strade belle e pulite.” Mentre continuano a camminare sul bordo del muro lungo un chilometro, il piede di Muhammad scivola improvvisamente a sinistra e proprio mentre sta per cadere, Firas lo afferra a mezz'aria per il polso.

Tra gli oggetti nello zaino da 20 kg che porta Firas ci sono le chiavi della sua casa, che è stata gravemente danneggiata dai bombardamenti aerei.

Nelle prime ore del mattino, gli Al Abdullah raggiungono finalmente la fine del muro, che non è mai stato completato. Scendendo dal muro, muovono i primi passi sul suolo turco.

Continuano il loro viaggio faticoso camminando per altre tre ore, tra le montagne e le valli rocciose. A un certo punto, Firas deve portare in braccio Muhammad mentre attraversa un fiume. Anche sua madre è sempre più stanca, quindi quando non ha in braccio il fratello porta lei. “È stato un tragitto estremamente duro, ed era tutto veramente buio. Il chiaro di luna non era sufficiente”, dice.

Dopo aver camminato più di 5 chilometri da quando sono scesi dal muro di confine, raggiungono la città turca di Kilis. Assetati e stanchi, vengono portati in un'appartamento per riposarsi, da un tassista con cui il contrabbandiere ha un accordo. Poco dopo, un altro taxi viene a prenderli per il viaggio di 16 ore fino a Istanbul, dove li aspettano i loro parenti. Arrivano a Istanbul il 22 luglio alle 22:30.

Quando gli è stato chiesto di esprimere i suoi sentimenti dopo aver raggiunto Istanbul, ha spiegato: “Mi sono sentito piuttosto scioccato per circa una settimana e incredulo di essere partito [dalla Siria] e di essere arrivato in un posto dove le persone vivono normalmente. Avevo raggiunto il ‘mondo reale’ – ecco come lo chiamo – il mondo reale in cui tutti vivono ma da cui siamo stati esclusi, a causa della brutale oppressione che abbiamo dovuto subire sotto il regime siriano. [Il regime] ci ha fatto vivere in una sorta di epoca regressiva e barbara all'interno di questo ‘mondo reale’ più ampio.”

Ha espresso la sua gioia alla vista dei lampioni per la prima volta in sette anni. “Per la prima volta da anni vediamo le strade non colpite dai missili, i marciapiedi non rovinati dalle esplosioni e i muri non danneggiati dalla guerra,” ha detto.

Gli orrori che Firas ha sofferto in Siria, però, lo hanno seguito nella sua nuova casa.

“Appena un aereo commerciale o un elicottero ci sorvolano, abbassiamo istintivamente la testa tra le spalle e siamo sopraffatti dalla paura: mi viene subito in mente di avvertire gli altri che gli aerei da guerra sono sopra di noi, come se fossi ancora a Ghouta,” ha spiegato Firas. “Può sembrare pazzesco,” ha detto ridacchiando, “ma abbiamo bisogno di ancora un po’ di tempo per dimenticare l'orrore che abbiamo vissuto.”

Ha concluso: “Ovviamente, le cose vanno meglio qui, soprattutto per la mia famiglia, e la mia famiglia è l'unica cosa che conta per me.”

La libertà per sempre…

Solleviamo il nostro orgoglio fino al cielo.

“Hasta la Victoria Siempre”

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