L'originale di questo post di Jeremy Leon Hance è stato pubblicato [en, come i link successivi] su Ensia.com, una rivista che da spazio alle soluzioni climatiche internazionali in azione. È qui ripubblicato come parte di un accordo di condivisione dei contenuti.
Tutto è iniziato, come spesso accade, con una diceria. Nel 2013 Matt Finer, un ricercatore della Amazon Conservation Association, sentì dire dai locali che qualcuno stava abbattendo alberi nel cuore della foresta amazzonica peruviana, al riparo da occhi indiscreti. Così Finer e i suoi colleghi hanno fatto qualcosa che sarebbe sembrato impossibile 10 anni prima: usando immagini satellitari ad alta risoluzione, hanno trovato alcuni ettari di alberi abbattuti in un mare apparentemente impenetrabile di verde.
“Si poteva vedere questo pezzettino di foresta perduta e abbiamo detto ‘Forse ci siamo'”, racconta Finer.
Negli anni successivi, il team ha visto la distruzione espandersi da pochi ettari a più di 2000. Alla fine sono riusciti a collegare le perdite con la United Cacao, una società basata alle Isole Cayman che ambisce a diventare “il più grande e il più economico coltivatore di cacao al mondo”, stando a quanto scritto sul suo sito web. Armati di scioccanti foto satellitari, Finer e i suoi colleghi hanno portato la storia davanti al governo e alla stampa, sperando di fare una qualche differenza. Il caso è ora davanti ad un tribunale peruviano che dovrà decidere se la società abbia seguito la procedura corretta prima di abbattere gli alberi. Nel frattempo, secondo Finer, il Ministero dell'agricoltura ha risposto appioppando alla United Cacao un ordine di “paralizzazione” per fermare le sue operazioni. Ma, dice Finer, le immagini satellitari settimanali mostrano che la compagnia non lo sta rispettando. “La deforestazione è in atto in questo preciso istante”, dichiara il ricercatore.
Il mondo lotta da decenni per limitare la deforestazione attraverso una serie di misure. Nel 2008, l'esperto di biodiversità Norman Myers ha dichiarato che il disboscamento nell'area tropicale era “una delle crisi peggiori da quando siamo usciti dalle caverne 10000 anni fa”. Le perdite di area verde in corso alimentano timori di un'estinzione di massa. Ma la perdita di foresta, sia tropicale sia temperata, gioca anche un ruolo fondamentale nella crisi climatica globale: gli esperti stimano che il 10-15% delle attuali emissioni di gas serra siano dovute ad un cambiamento nell'utilizzo dei terreni. Inoltre, le foreste sono essenziali per mitigare l'erosione del suolo, limitare le inondazioni, mantenere un buon livello di precipitazioni e persino aumentare la salute e la felicità degli esseri umani.
Tra le altre soluzioni adottate per cercare di arginare la deforestazione figurano la creazione di nuove aree protette, il miglioramento delle leggi e della loro applicazione a livello nazionale, la fondazione di programmi internazionali come REDD+ e gli impegni per fermare del tutto il disboscamento.
Eppure nulla ha contribuito a cambiare il modo in cui affrontiamo la deforestazione quanto il monitoraggio satellitare. Recentemente, ha rivoluzionato la nostra capacità di seguire l'andamento del fenomeno. Invece di fare affidamento sulle statistiche dei governi locali, i ricercatori e gli attivisti sono ora in grado di monitorare le modifiche nella foresta dai loro computer e smartphone.
Questo che cosa ci dice sui nostri progressi nella lotta alla deforestazione? E che cosa potremmo fare per raggiungere questo obiettivo globale?
Valutazioni globali
L'anno scorso, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura ha pubblicato l'ultima Valutazione delle risorse forestali a livello globale, secondo la quale abbiamo visto una perdita di foreste pari a 129 milioni di ettari dal 1990, un'area grande quasi come il Perù. Ma il rapporto, rilasciato ogni cinque anni, ha anche scoperto che il tasso di deforestazione è rallentato ultimamente: negli ultimi cinque anni, le foreste sono scomparse ad una velocità del 56% inferiore rispetto agli anni '90. La Valutazione ha registrato un notevole rallentamento della deforestazione nelle aree tropicali, mentre la copertura boschiva nelle regioni temperate è stabile o in aumento.
Anssi Pekkarinen, leader del team per la valutazione e il monitoraggio delle foreste, dichiara che la squadra di specialisti è “abbastanza sicura” che la deforestazione abbia subito un rallentamento nella zona dei tropici. Tra il 1990 e il 2000, le foreste tropicali hanno perso più di 9 milioni di ettari all'anno, ma negli ultimi cinque anni la diminuzione annuale è stata di poco superiore ai 6 milioni di ettari, secondo la Valutazione delle risorse forestali a livello globale. Tuttavia, i critici sostengono che i dati della FAO siano alterati a causa della dipendenza dai governi locali, che hanno vari livelli di abilità (ed interessi) nel monitorare accuratamente o denunciare il disboscamento. Inoltre, la definizione di foresta varia a seconda del governo e del periodo di tempo, rendendo difficoltoso un confronto sulla perdita di area verde.
Nel frattempo, uno degli studi più rigorosi degli ultimi anni ha scoperto che, tra il 1990 e il 2010, la deforestazione ha in realtà subito un'accelerazione del 62% nelle zone tropicali.
Il principale autore dello studio è Do-Hyung Kim, uno studente di dottorato alla University of Maryland, a College Park, il quale afferma che il rapporto, pubblicato nel 2015 sulla rivista Geophysical Research Letters, intendeva fornire “un'alternativa” ai dati della FAO, basata su “una definizione e metodi coerenti”. Per compiere l'analisi, Kim e i suoi colleghi hanno analizzato 5444 immagini di satelliti Landsat e hanno comparato la copertura boschiva attuale e passata utilizzano le stesse definizioni.
Le conclusioni di Kim sono supportate dalle scoperte di uno studio del 2013 pubblicato su Science, che hanno rivelato un aumento nella deforestazione pari a oltre 200000 ettari all'anno nel periodo che va dal 2000 al 2012. La ricerca ha dichiarato che il recente giro di vite del Brasile alla deforestazione è stato vanificato dalla distruzione in aumento negli altri Paesi tropicali, tra cui l'Indonesia e la Malesia.
“Il Brasile ha ridotto il suo tasso di deforestazione, ma rappresenta un'eccezione, non certo la regola”, dice Matt Hansen, il principale autore dello studio e scienziato specializzato nel rilevamento a distanza alla University of Maryland.
Tuttavia, quasi tutti concordano sul fatto che la deforestazione abbia subito un rallentamento nelle regioni temperate. Come prima cosa, i dati sono generalmente più affidabili in queste zone. Secondo la Valutazione delle risorse forestali, la copertura boschiva netta è invece aumentata in Paesi come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina negli ultimi 15 anni. Questo non significa che queste nazioni non stiano continuando ad abbattere le foreste, ma che il totale della superficie terrestre destinata alle foreste è aumentato. La Cina, per esempio, ha dato inizio ad ambiziosi programmi di rimboschimento per combattere la desertificazione e l'erosione del suolo (benché la maggior parte di questi programmi prevedano monocolture invece di foreste variegate).
Mele e arance
Global Forest Watch, uno strumento online di mappatura interattiva, ha scoperto che la perdita di aree boschive è aumentata a livello globale, seppur con alcune fluttuazioni, tra il 2001 e il 2014. Ma Rachael Petersen, un'analista al World Resources Institute, che a sua volta gestisce il Global Forest Watch, dice che comparare i dati della FAO e quelli del GFW è come “comparare mele e pere”: la FAO misura soprattutto il cambiamento nell'utilizzo del terreno, mentre il GFW copre la perdita di aree boschive. Per esempio, abbattere una foresta nel sud degli USA non è considerato come deforestazione dalla FAO, purché il terreno resti designato come una foresta di produzione (che è quindi abbattuta e ripiantata ad intervalli regolari). Ma il GFW rileverà la perdita per quell'anno, perchè i satelliti rilevano alberi abbattuti, anche se la foresta ricrescerà a breve.
La FAO dichiara di non includere le piantagioni di palma da olio o le monocolture di alberi da frutto nella sua definizione di foresta, ma include invece le piantagioni per la produzione di polpa e carta e gli sforzi di rimboschimento che di solito si basano su una sola specie. “Messi insieme, i dati [del GFW e della Valutazione delle risorse forestali] ci forniscono un'idea più completa del cambiamento del panorama boschivo.”, dice Petersen.
Un altro importante quesito che affligge i dati odierni è se le monocolture debbano essere considerate foreste. La maggior parte delle analisi basate su dati satellitari non distinguono tra piantagioni e foreste variegate, perciò la ricerca solitamente considera come foreste anche palme da olio, alberi della gomma, acace ed altre pianatagioni, semplicemente perché dall'alto hanno lo stesso aspetto di una foresta.
Ma l'idea che qualsiasi monocoltura sia una foresta fa impazzire gli ecologisti.
“Da un punto di vista biologico, sono simili alle foreste vergini quanto lo è il prato di casa mia”, dice William Laurance, un esperto di foreste tropicali alla James Cook University in Australia.
Indonesia vs Brasile
Alla fine, nessuna misurazione della deforestazione è perfetta. Ma potremmo anche sbagliare, concentrandoci sui tassi relativi del disboscamento globale. Anche se consideriamo l'ipotesi migliore di rallentamento, la deforestazione è comunque in corso ad un passo insostenibile. Ogni anno, il nostro pianeta ha meno foreste dell'anno precedente, e molte meno foreste vergini. Ogni anno, sempre più specie, spesso nemmeno conosciute, sono minacciate di estinzione o si estinguono del tutto. E ogni anno sempre più carbonio, responsabile del riscaldamento climatico e proveniente dalle foreste distrutte, entra nell'atmosfera.
In nessun Paese questo processo è più evidente che in Indonesia, che nel 2015 ha mandato in fumo 2,1 milioni di ettari di terreno, soprattutto torbiere e foreste pluviali.
Nella stagione secca, normalmente i coltivatori sgombrano il terreno bruciando le foreste, creando così una caligine tossica che ricopre grandi aree della regione. Ma l'anno scorso, in parte a causa di El Nino e del riscaldamento globale, gli incendi si sono rivelati particolarmente violenti e duraturi. Erik Meijaard, un ecologista stanziato in Indonesia, li ha definiti “il crimine ambientale più grave del XXI secolo”, benché la crisi, durata diversi mesi, non sia riuscita ad attirare l'attenzione dei media tanto quanto fece la fuoriuscita di petrolio della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico nel 2010.
In numeri, il disastro ha causato la morte diretta di 21 persone, almeno mezzo milione di gravi infezioni respiratorie, centinaia di voli cancellati e un impatto incommensurabile per l'ambiente. La Banca Mondiale ha stimato che la perdita totale per l'economia indonesiana sia stata pari ad oltre 16 miliardi di dollari (oltre 14 miliardi di euro). Inoltre, gli incendi hanno sprigionato una bomba al carbonio: nel momento di picco massimo, emettevano più anidride carbonica al giorno che l'intera economia statunitense.
Per coloro che hanno seguito le agitazioni intorno alla politica forestale dell'Indonesia, non è stata una sorpresa. Dopo decenni di corruzione, leggi troppo permissive, governo decentralizzato e potenti figure dell'industria, le foreste dell'Indonesia sono in crisi.
Ma forse il Paese dovrebbe guardare al Brasile: una volta era un paria globale per quanto riguardava la distruzione di foresta pluviale, ma oggi gli esperti lo ritengono un esempio di gestione della deforestazione. Leader nell'applicazione del monitoraggio satellitare, il Brasile ha unito la nuova tecnologia con un governo forte, severe leggi forestali ed ampie aree protette. E sta funzionando: il disboscamento è rallentato del 70-80% dai primi anni 2000, benché sia leggermente aumentato negli ultimi anni.
“Ad oggi, il Brasile è il miglior esempio di come si possa intervenire in una dinamica di deforestazione e riuscire a ridurla notevolmente”, dice Hansen, che considera “la vigorosa società civile, i mandati del governo e un settore privato impegnato” dei fattori cruciali per un successo iniziale. Per riassumere, le varie parti interessate brasiliane si sono riunite per fronteggiare un problema molto complesso, ma non irrisolvibile. La battaglia non è ancora terminata nel Paese, ma sta procedendo nella giusta direzione.
“Potrebbe essere difficile replicare quelle condizioni in altre nazioni”, dichiara Hansen. Per esempio, in Indonesia l'industria dell'olio di palma minimizza regolarmente il problema e il governo non ha ancora preso una posizione sull'importanza (o la mancanza) della protezione delle foreste, tant'è che recentemente ha persino criticato le promesse di alcune corporazioni di voler fermare la deforestazione.
Passi avanti
Molti sperano che l'accordo sul clima approvato a Parigi, firmato da quasi tutte le nazioni del mondo a dicembre, possa portare a una nuova era per le foreste. Secondo l'accordo, i Paesi devono conservare e valorizzare le foreste per mitigare le emissioni di carbonio.
L'accordo di Parigi ha inoltre dato un grande appoggio a REDD+, un programma molto controverso per cui le nazioni ricche pagano gli stati tropicali poveri affinché conservino le loro foreste. Dopo decenni di dibattiti, il programma deve ancora dimostrare il suo valore ed affrontare numerose critiche. Ma il primo giorno delle trattative di Parigi è stato annunciato un investimento di 4,5 miliardi di euro da parte di Norvegia, Germania e Regno Unito, che andrà a REDD+ e che dovrebbe finalmente far partire il programma.
Intanto, ogni anno, sempre più corporazioni ed industrie in tutto il mondo annunciano il loro impegno per fermare la deforestazione: il trend è iniziato dal Brasile nel 2008. Molte di queste promesse non vengono realizzate prima di 5 o 15 anni e, soprattutto, coinvolgono soltante le cosiddette foreste ad alto valore ambientale, una definizione che è ancora dibattuta e che comprende sostanzialmente foreste con un alto contenuto di carbonio o di specie rare. Ciononostante, questi impegni mostrano che almeno qualcuno nel settore privato inizia a pensare che la deforestazione non sia più ammissibile.
Infine, gli esperti dicono che riconoscere i diritti delle popolazioni locali e dei gruppi indigeni sulle loro foreste tradizionali potrebbe essere uno dei metodi più semplici, economici ed efficaci per proteggere le foreste esistenti dall'abbattimento. Molti gruppi indigeni sono ancora privi di diritti legali per il possesso dei loro territori tradizionali nei Paesi tropicali, ma dove sono riusciti a far valere le loro rivendicazioni (per esempio in alcune aree del Brasile), alcuni studi hanno rilevato che le foreste sono ben protette. In alcuni casi gli indigeni sono riusciti a fermare la deforestazione in modo ancora più efficace rispetto alle aree protette istituite dal governo. Gli sforzi per restituire le aree verdi agli indigeni sono costanti, ma troppo lenti per quei gruppi che vedono le loro foreste, e il loro modo di vivere, sparire a colpi di motosega.
In altre parti del mondo, anche i cittadini preoccupati stanno facendo la loro parte, facendo attenzione a quei prodotti che potrebbero essere responsabili della deforestazione: dalla carta al legname, dalla carne all'olio di palma. Di pari importanza è il supporto a quei gruppi ed individui che fanno pressione sui leader globali affinché proteggano le foreste che ci restano tra le crisi climatiche e della biodiversità. Se il Brasile può essere un esempio, avremo davvero bisogno di tutte le braccia a disposizione (i governi, l'industria e i cittadini) per porre fine alla deforestazione.
Jeremy Leon Hance è uno scrittore per mongabay.com. Ha anche scritto articoli per Yale 360 e la rivista Conservation. E’ l'autore del nuovo libro “Life is Good: Conservation in an Age of Mass Extinction”. Il suo account twitter è @jeremy_hance.